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Intervista di Carla Liberatore a Maria Rossi

Maria Rossi, artista e cabarettista scoperta da Enzo Jannacci, dopo una serie di fortunate esperienze allo Zelig, al Maurizio Costanzo Show e nella fiction di Mediaset ‘Belli Dentro, arrivò il baratro e la sua stella si spense, ma solo per un istante. Ora torna a brillare con il suo nuovo spettacolo ‘Hai da spegnere’? In cui racconta nel modo che più le si addice, quello comico, la distruttiva esperienza di alcolista non senza alcuni spunti di riflessione.

C.L.: Maria, perché ora ‘hai da spegnere’?

M.R.: Perché quando sono stata ricoverata in clinica dopo 10 anni di alcolismo la seconda persona che ho incontrato mi chiese: “Hai da spegnere”?.. Allora io risposi: “Come hai da spegnere, vorrai dire: hai da accendere”? E lui mi rispose: “Massì, da accendere ce l’ho pure io”… E da lì è nata l’idea del titolo che ho dato al mio nuovo spettacolo.

C.L.: Come e perché sei scivolata nella dipendenza da alcol e psicofarmaci?

M.R.: Gli psicofarmaci ho iniziato a prenderli durante un episodio di prima depressione perché le mie amiche si sposavano tutte e io no, ero terrorizzata all’idea di sposarmi. Ancora non diventavo una cabarettista e credevo di dover fare anche io quella fine. Invece per fortuna la mia vita ha preso una piega diversa e invece di sposarmi ho fatto tutt’altro, fra cui la cabarettista. L’alcolismo invece è arrivato a causa della non accettazione della morte di mia madre. Fra l’altro ero completamente astemia però bere alcol mi faceva star bene di umore. Iniziai a bere quando seppi che per mia madre non c’erano speranze di salvarsi quindi ogni volta che andavo da lei a trovarla volevo apparire quella di sempre, serena e giocosa senza far trasparire il mio dolore e la mia preoccupazione.

C.L.: In che modo hai preso coscienza del fatto che avevi un grosso problema?

M.R.: Il dramma di chi beve è che prendere coscienza è estremamente difficile. Personalmente ne ho preso coscienza quando ho iniziato a fare cose folli come reazioni esagerate a normali situazioni della vita e in particolare il giorno che con la mia macchina andai addosso all’automobile della persona che amavo perché sospettavo mi tradisse. Mi è capitato di scavalcare cancellate, sfondare porte e distruggere vetri delle auto. Quando si è alcolisti la realtà è completamente distorta e non ci si rende conto del dolore che si provoca a chi ci vuole bene, alla famiglia, agli amici a tutte quelle persone che ci amano. Decisi di entrare in clinica dopo l’ennesima bonaria minaccia nel tentativo di convincermi da parte di una bravissima psichiatra, la quale mi disse varie volte che se continuavo a bere sarei morta, ma mi convinsi definitivamente quando mi disse che se continuavo così non sarei più salita su di un palcoscenico. L’impatto che ebbi con la clinica fu strano, mi ritrovavo fra personaggi che stavano peggio di me e tutti erano lì per disintossicarsi da qualcosa. I primi 15 giorni furono tremendi perché gli psicofarmaci me li levarono immediatamente appena entrai e io mi portai dietro di nascosto 3 birre per ogni evenienza, che poi mi furono subito sequestrate.

C.L.: Con ‘hai da spegnere’? Il tuo nuovo spettacolo, quale messaggio ti proponi di dare?

M.R.: Mi propongo di donare un messaggio forte, specialmente ai ragazzi e alle ragazze più giovani che già a 15-16 anni bevono come spugne e vederli alle 6 del pomeriggio del venerdì e del sabato sera mi fa spavento e spesso uniscono l’alcol con droghe più o meno leggere. Oggi non c’è più nessuno che va a ballare o ad ascoltare musica nei locali senza avere un bicchiere in mano con dentro dell’alcol. Si è perso il gusto speciale del divertirsi col niente, o meglio solo con sé stessi, inebriandosi solo di ciò che siamo. Il bere, così come il drogarsi, è l’autodistruzione della persona. È un falso mito il fatto che il vero artista quando beve o si droga è più creativo, non è così, è soltanto uno scemo di alcolista e tossico.

C.L.: Gli amici di un tempo, ti sono rimasti vicino nei momenti bui?

M.R.: Si ma non tutti. Molto spesso però si sentivano come la mia famiglia, molto preoccupati ed impotenti. Si sentivano anche presi in giro perché mentivo anche davanti ad ogni evidenza e anche se avevo bevuto 10 birre, raccontavo che ne avevo bevuta solo una. Mi scusavo continuamente con me stessa e mentivo talmente tanto che credevo ad un certo punto che le mie bugie fossero verità. Credevo che l’alcol mi aiutasse a scrivere cose fantastiche. Una volta ero in un bar, ho scritto per ore.. in quel momento quando ero ubriaca credevo di aver scritto un capolavoro. Il giorno dopo mi accorsi che si trattava di una sola frase insulsa e senza senso, ripetuta più volte su di un fogliettino quando invece il giorno prima che ero completamente sbronza, credevo di aver scritto chissà cosa. Quando uscii mi resi conto che gli amici veri erano rimasti, quelli falsi si erano dissolti nel nulla. Ma magari non era neanche a causa della loro falsità, forse erano soltanto impotenti davanti al mio dramma, che era solo mio e solo io potevo risolverlo.. Uno degli amici veri e lo è tutt’ora, è stato Giancarlo Bozzo, regista di Zelig che ebbe il coraggio di dirmi ‘fatti curare’. Lo chiamai quando mi ero completamente disintossicata e lui mi dette fiducia e ricominciò a farmi lavorare. Secondo me, Giancarlo Bozzo fra tutti quelli che ho conosciuto, è la persona migliore che esista nel mondo dello spettacolo perché è un uomo vero, sincero e al di là dell’importanza che ha come regista famoso, al di là del suo ruolo ha dimostrato una sensibilità e una umanità non comuni.

C.L.: Quanto è stato difficile riprendere in mano la tua vita e il tuo lavoro dopo il periodo di dipendenza?

M.R.: È stato difficilissimo. E pensare che quando entrai in clinica feci il diavolo a quattro per non stare lì. Poi invece alla fine non me ne volevo più andare via. Ero in un mondo protetto, lì in clinica, nulla mi faceva paura, la vita lì fuori era piena di insidie e di dispiaceri di ogni tipo. Quando mi ritrovai fuori avevo l’impressione di essere senza una gamba. Uscii comunque dalla clinica dopo aver provato a nascondermi dentro ad un armadietto da cui venni strappata via e mi dissero: “Vada, Signora Rossi”.. E io andai, fuori dalla porta, armata di Antabuse, un farmaco terrorista per ogni alcolizzato. Da quel giorno ho ricominciato a costruire la mia vita e il mio lavoro. L’Antabuse non l’ho mai usato, perché uscii con la convinzione profonda e sincera di non voler mai più tornare a bere e a prendere psicofarmaci.

C.L.: Oggi che sei una donna adulta vicina ai 50 anni, cosa diresti a quella ragazza che si distruggeva con alcol e psicofarmaci?

M.R.: Io lo facevo perché avevo avuto una vita molto facile molto felice, con una infanzia stupenda, con due genitori che si amavano alla follia. Quello che mi fa più male è sapere di aver buttato via tanto, troppo tempo. Ho dovuto quindi rimettermi in coda, fare la fila e nonostante avessi fretta ho dovuto accettare di ricominciare tutto con la massima pazienza. Ad una ragazza così non direi niente, la prenderei di peso e la porterei in clinica anche se non si può fare. Non servono parole, farei l’unica cosa che si può fare, costringerla a curarsi. O forse farei un casino pazzesco per costringerla ad andare in clinica ma con la forza farei tutto, è l’unica maniera per non rimanere impotenti.

C.L.: Un tuo sogno nel cassetto da realizzare?

M.R.: Un film sulla mia storia e spero proprio di riuscirlo a fare.. voglio che la mia vicenda sia conosciuta da tutti e che la gente prenda coscienza del fatto che l’alcolismo è una condizione disumana che distrugge e devasta la vita di ognuno.

Fonte: MondoRaro


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