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Amerindiani, breve excursus sulla civiltà dei nativi americani

July 23, 2017 Leave a comment

Grandi laghi, foreste, praterie, deserti, aspre catene montuose, coste favorevoli alla pesca… è in questi ambienti, generosi o estremi, che ha inizio la storia degli Indiani o Pellerossa, i primi colonizzatori del Nord America. L’appellativo “Indiani” venne loro attribuito da Cristoforo Colombo, erroneamente convinto di essere approdato nelle Indie asiatiche. Amerindi, Amerindiani, abbreviazioni di “American Indians” oppure Nativi americani o “Indios”, se si utilizza la forma spagnola, sono altri nomi con cui i celebri Indiani d’America vengono designati.

Si tratta, in realtà, di un gran numero di gruppi etnici che, pur condividendo alcuni tratti culturali, non sono un insieme omogeneo come si tende erroneamente a pensare, differenziandosi per struttura sociale, lingua, religione, origine geografica all’interno degli attuali Stati Uniti, per usi, costumi e valori. Si calcola che prima della colonizzazione europea le popolazioni indigene del continente americano ammontassero a circa 90 milioni di individui, per la maggior parte concentrati nel Messico e nella regione delle Ande. Durante il Pleistocene, a seguito di periodici abbassamenti delle temperature che causarono il congelamento di gran parte delle acque del globo terrestre, in particolare alle alte latitudini, lo stretto di Bering divenne un ponte naturale di collegamento tra 2 continenti: Asia e America settentrionale. L’ipotesi accolta quasi all’umanità ritiene che gli Indiani discendano da popolazioni asiatiche giunte in Alaska dalla Siberia nord-orientale nel periodo glaciale: gruppi numerosi avrebbero attraversato lo stretto di Bering, allora coperto di ghiacci, in successive ondate migratorie. Alcuni studiosi fanno risalire le migrazioni a 30.000 anni fa, sulla base di studi comparati tra diversi linguaggi ed analisi delle caratteristiche genetich, mentre prove più dirette, basate su ritrovamenti archeologici, si riferiscono ad epoche posteriori, in particolare al 22.000 a.C. per il Canada, al 21.000 a.C. per il Messico e al 18.000 a.C. per il Perù. Il Sud del continente americano è stato raggiunto nel 10.000 a.C.

Se, come sosteneva Kant, non è possibile insegnare la geografia senza la storia o se ancora la geografia può essere definita come storia nello spazio, è giusto ripercorrere le tappe storiche salienti dei Nativi d’America. Era il 12 ottobre 1492 del calendario giuliano (corrispondente al 21 ottobre del nostro calendario gregoriano) quando, sull’isola ribattezzata San Salvador, ebbe luogo l’incontro tra Cristoforo Colombo ed i suoi compagni di viaggio, da una parte, e gli Indiani Taino dall’altra. Colombo sbarcò con i Pinzón, gli inviati reali e alcuni marinai, rendendo possesso dell’isola a nome dei Re di Spagna. A poco a poco gli indigeni, timorosi, incominciarono ad apparire tra la vegetazione. Erano completamente nudi e non conoscevano le armi. Si trattava dei ‘Taínos, della famiglia degli Araucos. Colombo e i suoi cominciarono a chiamarli ‘Indios’, credendo che fossero abitanti dell’India. Se l’incontro tra gli spagnoli e gli indigeni causò la meraviglia dei primi, già abituati alle esplorazioni africane e delle isole oceaniche vicine al vecchio continente, nei secondi dev’esser stato qualcosa di eccezionale e meraviglioso (meraviglioso per poco tempo, dato che poi si convertì in una maledizione mortale!). Gli indios osservarono con stupore le tre enormi “case” che galleggiavano e i loro abitanti bianchi, barbuti, armati e ricoperti di panni e di metalli. Non sapendo scrivere e possedendo una cultura primitiva non potettero trasmettere le loro impressioni su quegli ‘dei’ che venivano dal cielo. Le culture realmente sviluppate si trovavano molto distanti, in Messico e in Perù.

Facciamo un balzo in avanti nel tempo. Nel 1755 Inglesi e Francesi iniziarono una guerra per possedere la valle dell’Ohio, cui presero parte anche gli Indiani: gli Irochesi, alleati agli Inglesi, gli Algonchini, dalla parte dei Francesi. La guerra, chiamata “guerra dei sette anni” terminò nel 1763 con la vittoria degli Inglesi, siglata nel Trattato di Parigi. Nel 1763 il Parlamento concesse ai Nativi il diritto di rimanere sulle terre non ancora cedute, garantendo la tranquillità alle loro popolazioni ma, intorno al 1770, gli Irochesi furono costretti a firmare il Trattato di Stanwick che li obbligava a spostarsi più a ovest e ad abbandonare le terre dove avevano sempre vissuto. I coloni europei si espansero sui territori dei Nativi e, infrangendo il trattato del 1763, scacciarono i Delaware e gli Shawnee, ponendosi contro gli Inglesi che erano favorevoli ad una alleanza con i Nativi. Negli anni successivi, proseguironole guerre fra Inglesi e Americani, alle quali i Nativi presero parte, ma quando nel 1787 nacquero gli Stati Uniti, per tutte le tribù indiane fu l’inizio della fine. Il primo presidente Washington, intraprese una guerra contro gli Indiani che portò alla battaglia di Fallen Timbers, dove gli Indiani subirono una forte sconfitta ad opera dell’esercito americano guidato dal generale Waine, complice il tradimento degli Inglesi che, in un primo tempo, avevano promesso loro aiuto. Nell’agosto del 1795, invece, le tribù Shawnee e Miami furono costrette a firmare il trattato di Greenville con il quale persero circa 60.000 chilometri quadrati del loro territorio. Fu proprio alla luce di questi avvenimenti che Tecumseh, divenuto da giovane capo della tribù Shawnee, iniziò un lungo viaggio in tutto il Nord America, con l’intento di convincere gli altri capi a creare uno stato indiano nel quale riunire tutte le tribù.

La fama espansionistica dell’uomo bianco crebbe sino al 1830, anno in cui il Congresso Americano votò l’ “Indian Removal Act”, col quale numerosissime tribù del sud-est furono costrette a lasciare le loro terre, trasferendosi ad ovest del grande fiume Mississippi. Tra il 1862 e il 1868, nonostante fosse in corso la Guerra di Secessione, il generale Carleton e Kit Carson attaccarono i Navajo che rifiutarono di trasferirsi in una riserva ad est del New Mexico. Dopo anni di lotte, stremata dalla fame e dalla malattia, la tribù accettò il trasferimento. Lo stesso trattamento venne riservato agli Apache, capeggiati da Mangas Coloradas e Cochise. – Nel 1864 i Cheyenne presero d’assalto un treno merci. Il colonnello Chivington, in risposta, attaccò il villaggio di Sand Creek, nonostante gli Indiani esposero la bandiera bianca in segno di resa, senza risparmiare donne e bambini I Sioux, invece, guidati da Nuvola Rossa e da Cavallo Pazzo, per vendicare Sand Creek, attirarono in un’ imboscata un reggimento dell’esercito, uccidendo tutti gli uomini. Nel 1872 furono i Modoc a fuggire da una riserva in cui erano stati confinati assieme ai Klamath con i quali non erano in buoni rapporti. Guidati da Kintpuash (Capitan Jack), raggiunsero le loro terre sui Lava Beds, resistendo a lungo all’inseguimento degli Americani grazie all’astuzia del loro capo e al territorio impervio, fino a che Kintpuash non venne catturato e impiccato.

Il 1876 fu un anno importantissimo nella storia dei Nativi poiché i Sioux di Toro Seduto e Cavallo Pazzo si unirono ai Cheyenne di Due Lune, tenendo una grande cerimonia chiamata “Danza del Sole” sulle rive del fiume Rosebud. Dopo qualche giorno vennero attaccati dalle truppe del generale Crook, ma dopo uno scontro durissimo Cavallo Pazzo e i suoi uomini resistettero e ne uscirono vincenti. Al generale Custer venne successivamente ordinato di andare in avanscoperta, ma egli, senza aspettare i rinforzi, decise di attaccare. Toro Seduto, avvisato dell’arrivo dei soldati, riuscì ad organizzare insieme agli altri capi una difesa che si trasformò in poco tempo in attacco. I soldati di Custer vennero travolti nella famosa battaglia del Little Big Horn, che rappresenta la vittoria più importante nella storia dei Nativi. Nel 1878, dopo la battaglia di Little Big Horn, i Cheyenne e gli Arapaho accettarono di andare a vivere nelle riserve, con la promessa del governo americano di poter fare ritorno alle loro terre qualora la riserva non fosse stata di loro gradimento. Non appena la riserva si rivelò arida e priva di selvaggina da cacciare, i Nativi, guidati da Coltello Spuntato e Piccolo Lupo, iniziarono una fuga per poter tornare nelle loro terre, ottenendo, dopo anni di scontri e numerose perdite di uomini, una riserva nei loro territori. Fra il 1891 e il 1898 tutti i Nativi vennero relegati per sempre nelle riserve, ad eccezione dei Chippewa che diedero origine ad una rivolta, terminata in un bagno di sangue. Dal 1900 in poi nacquero associazioni sensibili ai problemi degli Indiani, volte a salvaguardare la cultura e la vita dei popoli nelle riserve e nel 1934 , con l’Indian Reorganization Act, gli Indiani riuscirono ad ottenere qualche diritto in più e la restituzione di piccola parte dei territori loro sottratti nel corso di decenni di guerre.

Fonte: MeteoWeb

Barocco (parte 2)

October 16, 2012 Leave a comment

Contesto storico
Il trattato di Cateau-Cambrésis (1554) segna l’inizio di un cambiamento memorabile nel territorio italiano subito dopo l’avvento della politica spagnola che, attraverso la sua influenza egemone, riesce ad assoggettare mediante sudditanza diretta o indiretta gran parte degli Stati: il Regno di Napoli, la Sicilia e la Sardegna subiscono l’annessione al dominio del Re di Spagna, la Toscana e l’ex-ducato di Milano subiscono la giurisdizione spagnola, gli altri stati risentono fortemente della presenza del nuovo dominatore. Soltanto Venezia riesce a tutelare una propria autonomia conservando la sua indipendenza.
La situazione nel Seicento rimane pressoché immutata, un periodo nefasto per la penisola italiana che, soggetta al nuovo oppressore, perde il prestigio politico rispetto al contesto europeo soffrendo in particolar modo la crisi economica, non che demografica, che investe quasi tutta l’Europa. E ovviamente la conseguente depressione politico-sociale, affiancata dalla recessione economica, favorisce una fiacchezza morale che colpisce la cultura e soprattutto l’ispirazione letteraria. Anche il capitalismo ritrova il suo investimento più considerevole nelle proprietà terriere favorendo considerevolmente la ricomparsa dei grandi latifondisti, spesso soggetti ai voleri dell’aristocrazia che, di conseguenza, dedica maggiore attenzione all’emulazione del lusso influenzata dalla corte spagnola piuttosto che allo sviluppo della produzione agricola.
In questa visione generale assume un’ingerenza sempre più massiva la gerarchia ecclesiastica, la quale si promuove garante di una moralità pubblica impeccabile gestita, in cambio di benefici rilevanti e lauti favori, dal potere civile vigente e, il più delle volte, elargita con severità austera nei confronti delle classi meno abbienti. Evento memorabile che attesta l’incredibile potere acquisito dalla Chiesa Cattolica é la condanna al rogo del filosofo domenicano Giordano Bruno, arso vivo in Campo de’ Fiori a Roma, centro della Controriforma, per aver sostenuto le sue idee panteistiche fino alla morte, ritenute eretiche dal Tribunale dell’Inquisizione, sottolineando una fervida dimostrazione della tremenda repressione esercitata contro la libertà delle idee attraverso l’ottusa forma di conservatorismo della potestà papale, che assiste alla diffusione della superstizione e del culto esteriore e formale della religione. Ma nonostante il soffocamento imposto dalla casta papale, nasce una nuova concezione del pensiero che si fonda sul progresso della scienza – basta soffermarsi sugli studi astronomici di Galileo Galilei che pone le basi della scienza moderna – sulla libertà intellettuale delle idee innovative e sulla proclamazione della libertà dell’artista.
Il Barocco é un’epoca contraddittoria, una realtà storica complessa ricca di contrasti, ove lo sfarzo della nobiltà si oppone drasticamente alla miseria dei poveri, un periodo nevralgico espressione della crisi della precedente società rinascimentale, una corrente sbocciata nel bel mezzo di un vecchio continente europeo dilaniato dalle guerre interminabili attraverso cui il potere politico delle potenze maggiori, tra cui Francia e Spagna, si bilancia al potere spirituale crescente del papa, nel quale erge l’urto fra la Riforma Protestante e la Controriforma Cattolica. Il Barocco é l’arte del trionfo controriformista e dell’assolutismo sovrano, ma diviene l’arte dell’introspezione psicologica dell’uomo, non che l’espressione del suo dramma. La ‘ragione di Stato’ diventa argomento di fondamentale importanza e le discussioni politiche convergono sui rapporti tra la politica e la morale, tra l’essenza dello Stato e la potestà della Chiesa, tra il singolo individuo e il potere centrale, argomentazioni che spingono alla necessaria subordinazione dello Stato alla Chiesa, alla posposizione del singolo allo Stato. La politica diventa convenienza, simulazione, sopravvivenza.
Gli intellettuali rifiutano il culto del classicismo greco e latino rivendicando un’autonoma superiorità che spesso si traduce nel mero tentativo di voler stupire e meravigliare, oltre la perfezione formale rinascimentale. Il rinnovamento é sinonimo di sperimentazione artificiosa, le parole assumono un connotato più retorico mentre la metafora fonde i due termini di paragone in una sola immagine. L’arte non é più imitazione, ma sottile finzione che soppianta la realtà, troppo complessa per essere riprodotta fedelmente. Essa traduce una forma estremamente raffinata da apparire stravagante, stupefacente al fine di esteriorizzarne in maniera grandiosa il suo contenuto. L’arte, traduzione effettiva del tempo, nata come risposta al protestantesimo, diventa uno vivido strumento di potere tale da diffondere le idee controriformiste e ricondurre il popolo alla dottrina ecclesiastica mediante forme monumentali e grandiose adatte a toccare le profondità dell’animo e la sensibilità della gente comune. L’architettura si compone di sontuosi ed immensi palazzi corredati di meravigliosi affreschi attraverso cui avvicinare i fedeli mediante un  munifica rappresentazione sacra delle scene. Le arti figurative, puntando sulla forza persuasiva del bello, influenzano le emozioni mediante una composizione fantasiosa e spregiudicata, spesso tradotta nel modo migliore per essere ricondotta al modello cristiano, dato che la Chiesa diventa la principale committente delle opere di grande rilievo. La caratteristica principale é la fastosità che, attraverso uno stile classico tradotto in una versione approfondita e quindi declinata in molteplici soluzioni di stile, specie in quella naturalistica, sottolinea una ricerca del movimento, dell’energia compositiva accentuando un effetto drammatico caratterizzante, mediante considerevoli contrasti di luce e ombra, e la presenza di contenuti floridi, avvolgenti, non che ricchi di elementi decorativi.
Il Barocco é un fenomeno europeo, infatti si caratterizza non soltanto nei paesi cattolici, ma attecchisce anche in quelli protestanti. Comunque é un fenomeno esclusivamente cattolico, ragion per cui la sua origine é naturalmente italiana, centralizzata nella città di Roma, fulcro del potere papale, da dove irradia l’ispirazione nel resto d’Italia e d’Europa quale diffusione dottrinale evangelizzante, diffusasi proprio a ridosso dell’evangelizzazione delle colonie del Nuovo Continente.

a cura di Marius Creati

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Barocco (parte 1)

October 15, 2012 Leave a comment

Contesto artistico-culturale
Si può definire Barocco quel movimento culturale, artistico, letterario, musicale e filosofico incrementato nel periodo compreso tra il XVI e il XVIII secolo, sinonimo di grande esuberanza nell’estro, anche se permeato di un forte connotato classicista, specie nel linguaggio, che ne caratterizzò fortemente l’intera corrente, nonostante sia relativamente incerta la sua origine, che designava con accentuata negazione le forme irrispettose dei precetti fondamentali di proporzione e di armonia tipiche della produzione artistica del secolo precedente.
La sua denominazione assume un riferimento basilare nel francesismo ‘baroque’, una parola di origine francese che, a sua volta, trova la sua ulteriore provenienza dal portoghese ‘barroco’, usata per identificare una perla dalla forma irregolare ed estremamente bizzarra. Il termine assume un carattere eloquente soltanto alla metà del XIX secolo per identificare la civiltà del XVII secolo valutandone la pregiatezza dell’arte e dell’architettura, non che successivamente della musica e della letteratura, definendo così età barocca l’inventiva del Barocco per sottolinearne sotto alcuni aspetti una vicinanza della sensibilità artistica ottocentesca.
Il primo storico dell’arte a menzionare il termine ‘barok’ fu il critico svizzero Heinrich Wölfflin con il suo memorabile saggio ‘Renaissance und Barok’ (1888) attraverso cui celebra il patologico ‘Baroque’ come una categoria stilistica e un’area di studi di enorme considerazione.
Il tema portante dell’arte barocca é la natura, intesa in tutto il suo splendore come fonte inesauribile di ispirazione, generante un intreccio creativo che si avviluppa tra i diversi punti di osservazione attraverso cui esaltare il mondo minerale, la sfera vegetale, l’indole animale secondo le molteplici prospettive di stile dei vari artisti mediante i quali fiorisce la bellezza, si trasforma lo spirito emozionante, si consuma l’aspetto realistico in un riflesso innovativo che assume connotati lussureggianti e via via sempre più dinamici. L’attrattiva naturalistica spinge verso l’attenzione dei corpi, intesi nella fisicità delle forme che interagiscono, costernati di luce eterea, con i luoghi naturali circostanti offrendosi alla beltà del creato, svelando i piaceri inespressi, presentando una sorta di inarrendevolezza compositiva immersa in un sottile senso di trapelante languore viscerale. Orrore e bruttura rappresentano una nuova chiave di lettura nella bellezza artistica barocca, allontanandosi dal carattere comico esilarante, mentre si accende un interesse baluginante per le scene funebri e catastrofiche, per la putrefazione e la morte ossessionati dalla novella curiosità individuale della spiritualità, a discapito della mera materia terrena. La sensualità e l’erotismo si fondono con amalgamante ambiguità con le forti tensioni mistiche e religiose del periodo, illuminanti da un punto di vista artistico per la rappresentazione tematica delle opere più rilevanti.
Il Barocco é un fenomeno che trae origine dalla fine del Cinquecento prolungandosi fino all’inizio del Settecento, oltre un secolo di studi delle forme classiche proiettate verso una ricerca ossessiva del nuovo, esaltante una scenografia rivolta all’esterno, verso una rappresentazione ostensiva dal carattere meraviglioso che desidera attrarre e meravigliare. In effetti mentre talune forme d’arte perdono di tonalità già dopo i primi cinquant’anni, come per la letteratura, per ricondursi verso aspetti più classici e formali, il teatro e l’architettura assumono un connotato più effervescente arrivando a svolgere un ruolo di assoluta preminenza. L’intellettuale  deve confrontarsi con una nuova tipologia di pubblico, molto più vasto e meno raffinato di quello delle corti rinascimentali, promuovendo di conseguenza una letteratura di evasione adatta ad una collettività spesso retriva dal punto di vista culturale. Un Barocco lusingato dallo spettacolo e dalle arti figurative non può non esaltare la curiosità delle masse mediante la spettacolarizzazione psicologica ed emotiva dell’illusione ingannevole. L’attrazione delle masse, infatti, nasce proprio dal presupposto di volerne assoggettare la volontà, per indurle verso l’accettazione volontaria dell’ordine  sacrale costituito inibita dallo stupefacente senso del miracoloso promulgato dai solenni valori religiosi; da ciò scaturisce che, in un certo senso, l’arte e la cultura barocca rappresentano un sintomo della Controriforma Cattolica.

a cura di Marius Creati

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Oro alimentare, percorsi di storia

June 21, 2012 Leave a comment


STORIA DELL’ORO ALIMENTARE
Impreziosire la tavola decorando piatti e pietanze con oro ed argento alimentare: una tradizione antica che oggi torna ad essere apprezzata e ricercata.
Gli antichi egizi lo usavano perché credevano rendesse immortali, gli indiani d’America erano soliti aggiungere oro ai loro piatti nella speranza che permettesse all’uomo di sollevarsi in aria, per i popoli dell’estremo oriente da secoli è un cibo votivo.
Fu però in Europa ed in particolar modo nell’Italia rinascimentale che l’oro fece l’apparizione su tavole e banchetti come elemento decorativo, in grado di impreziosire e dare lustro a cibi e bevande.
Firenze, Padova, Venezia videro nel XV secolo la diffusione dell’oro e dell’argento alimentare per come oggi lo conosciamo : non qualcosa di sacro o magico ma un “ingrediente” per illuminare le tavole di tutto il mondo.
L’antico Egitto
L’oro alimentare in Estremo Oriente
L’oro come alimento, non nell’accezione moderna del termine ma come cibo in grado di suscitare il favore degli dei risale al II millennio a.C., all’epoca dei faraoni. Nell’antico Egitto l’oro, in ogni ambito della vita, era associato alle divinità : l’oro era il colore della pelle degli dei negli affreschi, d’oro erano ornate tombe e sarcofaghi dei faraoni. L’oro veniva quindi mangiato perché era un cibo sacro che permetteva secondo gli egiziani di ingraziarsi gli dei.
Ma gli egiziani non erano l’unico popolo che considerava l’oro un cibo votivo. Anche se non è possibile avere un riscontro cronologico esatto si ritiene che fin dai tempi più antichi anche presso le civiltà orientali fosse usanza comune unire cibo ed oro per attirare verso di sé l’attenzione della divinità. La certezza che questa non sia solo una leggenda ma una pratica reale e diffusa ci viene data da Marco Polo e dal suo manoscritto più conosciuto, Il Milione, scritto durante il suo viaggio in estremo oriente intorno al 1300 d.C.
Un’eccezione rispetto alla pratica dell’utilizzo dell’oro come ingrediente alimentare per scopi sacri era rappresentata dal Giappone e dalla sua civiltà. Già nei tempi antichi infatti essi utilizzavano l’oro alimentare nell’accezione in cui lo intendiamo noi oggi, ossia per la decorazione di cibi e bevande : bottiglie di sakè con all’interno fiocchi d’oro e piatti speciali ricoperti di foglia d’oro sono due esempi di questa usanza oggi quanto mai attuale.
L’oro alimentare nel nuovo continente
I banchetti europei nel XV secolo
La scoperta dell’America nel 1492 d.C. portò anche alla scoperta dell’utilizzo dell’oro come “alimento” ed ancora una volta il suo utilizzo aveva motivazioni “ultraterrene”. Non era però una motivazione sacra bensì magica: i nativi americani erano convinti che l’oro permettesse all’uomo di lievitare in aria.
Fu probabilmente in seguito a questa scoperta che l’oro alimentare fece la sua apparizione anche in Europa. Qui perse però tutti i suoi significati sacri o magici e divenne un elemento per decorare ed impreziosire tavole e portate. Già nel XVI secolo i nobili di tutta Europa arricchivano le loro tavole decorando i loro piatti con la foglia d’oro; a Venezia, nel 1561, in occasione di una festa in onore del principe di Bisignano il pane e le ostriche furono servite ricoperti d’oro; ancor prima Galeazzo Visconti, nel 1386, in occasione delle nozze della figlia Violante, deliziò i suoi ospiti offrendo loro storioni, carpe, anatre, quaglie, pernici ricoperte da una sottilissima foglia d’oro.
L’uso dell’oro in cucina era talmente diffuso che, nella Padova cinquecentesca, il consiglio cittadino decise di limitarne l’utilizzo, stabilendo che nei pranzi nuziali non si potessero servire più di due portate condite con il più prezioso dei metalli.
Nella Firenze dei Medici erano imbanditi i più grandi banchetti dell’epoca. Fra i rivestimenti sfarzosi e i gioielli utilizzati per arricchire tavole e posate, l’oro aveva sempre una posizione di primo piano, rivestendo ed illuminando gran parte delle portate.
L’oro e la medicina
Non solo in Italia però l’oro alimentare arricchiva i banchetti delle caste nobiliari; alla corte di Elisabetta I infatti arance, melograni, datteri, fichi e persino gli acini d’uva erano ricoperti da polvere d’oro.
Anche se la scoperta che l’oro avesse proprietà terapeutiche avvenne qualche secolo dopo, già nel XV secolo gli alchimisti preparavano medicinali utilizzando l’oro alimentare, considerandolo un toccasana per ogni malattia. Nel secolo seguente si diffuse in Europa, ed in particolar modo in Italia, la pratica di mangiare a fine pasto un confetto ricoperto di foglia d’oro, che avrebbe dovuto mettere a riparo da ogni tipo di malattia cardiaca. Nello stesso periodo a Milano, gli speziali aggiungevano dell’oro ai medicinali, con lo scopo di addolcirne il sapore.

Fonte: Giusto Manetti Battiloro

Federico Barbarossa, imperatore contro i Comuni Italiani

March 27, 2012 Leave a comment

Nel 1176 le truppe dell’imperatore Federico Barbarossa, sceso in Italia per la quinta volta, vengono annientate nella battaglia di Legnano: le truppe confederate della Lega Lombarda, composta da numerose città dell’Italia settentrionale protette da papa Alessandro III (in nome del quale, nel 1168, è stata fondata la città di Alessandria in Piemonte), sbaragliano l’esercito imperiale. Dopo vent’anni di campagne militari, la sconfitta di Legnano pone fine alle pretese del Barbarossa di esportare in Italia il suo «modello tedesco».
In Germania, Federico – sulla base del diritto feudale – aveva imposto che le terre del demanio imperiale dovessero essere considerate, chiunque ne fosse stato in possesso, feudi dell’Impero. In base a questo principio – applicato con ottimi risultati per i rapporti tra imperatore e suoi feudatari in terra tedesca – tutti i detentori delle terre demaniali diventavano diretti vassalli dell’imperatore, titolare del dominio assoluto (dominium) delle terre del demanio. Anche in Italia c’erano terre appartenenti al demanio imperiale, sulle quali Federico poteva esercitare, almeno in linea di principio, quel complesso sistema di diritti demaniali denominati regalìe (iura regalia), stilati nella seconda dieta di Roncaglia (1158) e riconosciuti legittimi da quattro insigni giuristi dell’Università di Bologna.
In virtù di questi iura l’imperatore era riconosciuto signore assoluto di terre libere, strade, ponti, fiumi; aveva facoltà di imporre tasse di passo e di dazio; poteva battere moneta, riscuotere multe, acquisire i beni confiscati ai condannati per gravi delitti, disporre dei palazzi regi delle città demaniali; nominare magistrati o richiedere somme di denaro alle comunità che volessero nominarne di propri; amministrare i più alti gradi di giustizia, richiedere la partecipazione alle spedizioni militari, riscuotere il fodrum, una tassa imposta in cambio del servizio militare, esigere contributi straordinari per spedizioni militari di interesse comune e altro ancora.
Nelle sue prime discese in Italia, Federico era riuscito ad imporre ai Comuni italiani la sua autorità, rivendicando le regalìe, pacificando i comuni in lotta tra loro e distruggendo le città ribellatesi alla sua autorità (Asti, Chieri, Tortona nel 1155; Crema, Milano, Brescia, Piacenza, Bologna nel 1162), ma a partire dalla quarta discesa (1166) il clima in Italia diventa più ostile. I comuni si sono organizzati nella Lega Lombarda, reclamano l’esercizio delle regalìe, concesse loro dall’imperatore Enrico V (+ 1125). Ricostruiscono Milano, fondano Alessandria che nel 1174 (quinta discesa) resiste all’attacco delle truppe imperiali, divenendo il simbolo della riscossa antimperiale. La sconfitta di Legnano impone un cambiamento di rotta nella politica italiana: la tregua e la mediazione politica. Nel 1183 i Comuni italiani firmano con l’imperatore la pace di Costanza: Federico accoglie le richieste della Lega e annulla le deliberazioni di Roncaglia. I comuni, per parte loro riconoscono a Federico le regalìe, ma ottengono di esercitarle in nome dell’imperatore dietro il pagamento di un censo annuo; accettano inoltre che l’imperatore rinnovi loro ogni cinque anni l’investitura feudale (i comuni sorgevano pur sempre sulle terre imperiali), e promettono di fortificare le loro città e mantenere un esercito da inviare all’occorrenza, al loro imperatore, proprio come tutti i buoni vassalli.

Fonte: Lux in Arcana

Omocausto, sterminio di omosessuali nei lager nazisti

January 28, 2012 Leave a comment

“(Nei campi di concentramento nazisti) di regola la giornata iniziava alle sei del mattino o alle cinque se d’estate e in poco meno di mezz’ora dovevamo essere lavati, vestiti e aver rifatto i nostri letti proprio come i militari.
Se ti avanzava del tempo potevi fare colazione il che significava mandare giù velocemente una zuppa di farina calda o tiepida e mangiare un tozzo di pane. Poi dovevamo posizionarci in file di otto nella piazza per l’appello mattutino.
Seguiva il lavoro, in inverno dalle 7.30 fino alle 17.00 mentre in estate dalle 7.00 fino alle 20.00, con una pausa di mezz’ora sul luogo di lavoro.
Dopo il lavoro, dovevamo tornare direttamente al campo e disporci immediatamente per l’appello serale”, testimonianza di Heinz Heger (pseudonimo) da ‘The Men with the Pink Triangle’
Lavori Forzati
Agli omosessuali erano spesso assegnati i lavori più estenuanti da fare nel campo e molti di loro morivano distrutti dalla fatica. Costretti a trasportare pesanti massi nelle cave molti di loro riportavano terribili infortuni.
Altri di questi lavori consistevano nello spostare quantità di pietre inutili per giorni e giorni da una parte all’altra del campo, con il solo scopo delle SS di eliminare lo “spirito omosessuale”.
A partire dal 1943 le SS avevano iniziato il “Programma di Sterminio attraverso il Lavoro Forzato” specificatamente progettato per condurre alla morte omosessuali e criminali.
“Durante la mattina dovevamo trasportare la neve fuori dal nostro blocco e spostarla dal lato sinistro a quello destro della strada.
Viceversa nel pomeriggio dovevamo trasportare di nuovo la stessa neve dal lato destro al lato sinistro della strada…
Dovevamo spalare la neve con le nostre mani, le nostre nude mani, senza alcun guanto di protezione. Lavoravamo a coppie…
… Questa tortura psichica e fisica durò sei giorni fino a che un nuovo “Triangolo Rosa” di prigionieri non fu assegnato al nostro blocco e prese il nostro posto.
Le nostre mani erano completamente spaccate e mezze congelate; eravamo diventati schiavi muti e insignificanti delle SS”, testimonianza di Heinz Heger (pseudonino) da ‘The Men with the Pink Triangle’.
I gay sono stati trattati con particolare disprezzo non solo dalle SS ma anche da molti degli altri detenuti che li consideravano come dei pervertiti degenerati.
La vita nei campi era una vita solitaria che metteva a dura prova la resistenza psichica indipendentemente dal periodo di tempo trascorso.
Di fronte a tanto odio e degradazione non c’è da sorprendersi che molti si suicidassero correndo contro le recinzioni elettrificate anziché continuare a sopportare la persecuzione.
Nonostante l’ostilità di molti detenuti nei campi, alcuni Triangoli Rosa riuscirono comunque a integrarsi e ad aiutare gli altri.
Per esempio, Kitty Fisher, una detenuta ebrea deportata ad Auschwitz nel 1944 all’età di 16 anni, attribuisce a un detenuto dal Triangolo Rosa la sua sopravvivenza e quella di sua sorella.
Al suo arrivo al campo, un prigioniero che si trovava ad Auschwitz già dal 1940, la aiutò. La aiutava con il cibo e cercava di confortare lei e sua sorella dando loro speranza.
Prima di vederla per l’ultima volta, lui la indirizzò verso una grande selezione che in definitiva serviva per liquidare il campo.
Le disse di far finta di essere una tessitrice e di dire alle SS che lei e sua sorella erano addestrare.
Questo consiglio le salvò la vita: “Possa essere benedetta la sua memoria perché lui ha contribuito alla mia salvezza”.
Punizioni
Le pene per reati vari nei campi includevano il tree hanging, ovvero un palo alto con un gancio al quale venivano agganciate le mani ammanettate del detenuto dietro la schiena.
Il peso del corpo tirava le braccia verso l’alto con conseguente dolore lancinante delle spalle sotto lo sforzo. Le SS chiamavano questa punizione “la foresta cantante”. Il gay sopravvissuto Heinz Dörmer ricorda ancora “le urla e le grida disumane”.
Per metà anno sono stato tenuto piegato… Le mie mani erano legate alle mie caviglie. Quando mi portavano il cibo, la ciotola era sul pavimento; loro lo versavano da sopra e questo si rovesciava per terra.
Io ho dovuto leccarlo con la lingua. Noi non potevamo uscire, perciò i nostri pantaloni erano sporchi.”, testimonianza di Paul Gerhard Vogel, sopravvissuto.
Un’altra punizione diffusa era l’horse: una panca di legno su cui la vittima veniva legata supina, gambe e braccia legate alle gambe, prima di essere colpito più volte con un oggetto contundente o una frusta.
Altre forme di punizione includevano lo stare in piedi per ore e ore o al calore del giorno o nel freddo della notte oppure strisciare più e più volte lungo il pavimento di cemento su gomiti e ginocchia.
Tutte queste punizioni venivano effettuate di fronte agli altri detenuti per l’umiliare il condannato.
“Due uomini delle SS hanno portato un ragazzo al centro della piazza… …Le SS lo spogliarono e infilarono la sua testa in un secchio.
Poco dopo questi aizzarono i loro feroci pastori tedeschi contro di lui: i cani da guardia prima morsero il suo inguine e le sue cosce e infine lo sbranarono proprio di fronte a noi.
Le sue grida di dolore erano distorte e amplificate dal dolore della sua testa intrappolata. Il mio corpo irrigidito vacillava, i miei occhi erano sgranati dal terrore, le lacrime scorrevano sulle mie guance e pregavo con tutto me stesso che quel dolore finisse in fretta.”, testimonianza di Pierre Seel, “Liberation Wars for Others”.
A volte le SS costringevano tutti i prigionieri a guardare le esecuzioni più atroci. Queste manifestazioni pubbliche di orribile violenza sarebbero state secondo loro un deterrente a qualsiasi pensiero di rivolta e avrebbero creato un clima di terrore e di solitudine.
In alcuni campi i triangoli rosa erano alloggiati insieme ad altri detenuti, ma a volte, come ad esempio a Sachsenhausen, speciali baracche vennero erette apposta per loro, al fine di segregarli.
In questi blocchi i triangoli rosa erano obbligati a dormire con le mani ben visibili al di fuori della sottile coperta per evitare qualsiasi contatto fisico con gli altri detenuti  che condividevano la cuccetta.
La luce artificiale o anche il rumore degli altri detenuti rendeva poi più difficile prendere sonno per un lungo periodo di tempo.
“Chiunque fosse stato trovato con la sua biancheria sul letto o con la sua mano sotto la coperta (e i controlli erano effettuati quasi ogni notte) veniva preso e veniva bagnato con diverse ciotole di acqua fredda prima di essere lasciato fuori per almeno un’ora. Solo pochi riuscivano a sopravvivere a questo trattamento”, testimonianza di Heinz Heger (pseudonym) da ‘The Men with the Pink Triangle’.
Relazioni
Nonostante le dure condizioni nei campi, o anche proprio a causa di ciò, nacquero delle relazioni. I sopravvissuti parlano di forti legami sessuali ed emotivi che esisteva tra i detenuti e i comandanti del campo, e anche in alcuni casi con le SS.
Alle guardie poi piaceva prendere un prigioniero e tenerlo come “animale da compagnia”. In assenza di donne inoltre, le pulsioni sessuali travalicavano i confini sessuali.
I “fortunati” che venivano scelti come “animali da compagnia” riceveranno razioni alimentari supplementari in cambio di favori sessuali e spesso evitavano il duro lavoro.
Mentre la maggior parte di queste relazioni erano chiaramente dovute alle condizioni disperate in cui si trovavano e a tattiche di sopravvivenza, altre invece erano sorrette da un affetto sincero di fronte a un disagio inimmaginabile.
Esperimenti
Come se il duro lavoro fisico e le brutali punizioni non fossero sufficienti a dare l’idea del clima di disperazione e terrore, un’altra pratica diffusa erano gli esperimenti.
Molti omosessuali furono anche selezionati per i vari esperimenti medici effettuati dai dottori delle SS.
Ad Auschwitz Birkenau per esempio, il medico SS, il dottor Carl Vaernet tentò di liberare gli uomini gay dalle loro tendenze omosessuali attraverso l’inserimento chirurgico di capsule di testosterone.

Lewis Oswald tratto da Homocaust, liberamente tradotto da Luca Giacomelli e Giacomo Viggiani.

Fonte: Giornata

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Gli Egizi (parte IV)

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Il monile più largamente diffuso utilizzato per celebrare la solennità del costume era l’hosckh, un collare concentrico ampiamente vistoso corredato da una serie di file di pietre preziose o di palline colorate di ceramica ornanti la parte sporgente al di sopra del petto, seguendo la linea circolare del collo, e allacciato alla base della nuca. Essi erano lavorati in lamine di metallo, sovente in oro, composte con paste vitree colorate, pietre dure, coralli e smalti. L’hosckh era il tipico accessorio esornativo, usato da entrambi i sessi, indossato al di sopra dei vari indumenti, o altresì sul busto ignudo per gli uomini, e poteva assumente dimensioni diverse, dalle più minute che non superavano l’estremità della spalla alle più ampie che contrariamente ne sormontavano i lembi imitando lo stile di una moderna mantellina. Un’alternativa assai rilevante era costituita da un pettorale di metallo, il più delle volte in oro, di forma rettangolare e lavorato a traforo tempestato di migliaia di pietre preziose o di motivi in ceramica incastonati singolarmente tra loro. Questo accessorio era legato al collo mediante l’uso di una catena decorata e adornava il petto coprendone le fattezze. Su di essi venivano collocati i vari amuleti che servivano a protezione dalle avversità, a ribadire il forte legame con la tradizione e la religione. La fattura era altamente pregiata.

L’ornamento simbolico delle divinità, indossato per privilegio dai faraoni, era l’uraeus, un simbolo che rappresentava gli emblemi del Basso e dell’Alto Egitto, identificato nella testa di un cobra alato affiancato da un avvoltoio, il quale si poteva scorgere su gran parte dei copricapi e diademi reali. Analogo significato simbolico era per la tiara, un copricapo di estrema rinomanza e prestigio suddiviso in due modelli bizzarri a forma di cono o di cuneo, l’una presentava una falda che spuntava dal retro per erigersi verso l’alto mentre l’altra era acuminata sulla cima, la quale a seconda del colore, rosso per il Basso Egitto e bianco per l’Alto Egitto, esprimeva il dominio del monarca sui due regni. In alcuni casi era possibile scorgere una sovrapposizione delle tiare in un solo copricapo simboleggiante il dominio su entrambi i paesi, Nord e Sud. Da ricordare che sulla tiara del Basso Egitto era ben visibile l’insegna del faraone del Nord, il litus, una sorta di ciuffo a spirale che si intraveda sulla sommità del copricapo.

Da menzionare anche il kheperesh, un copricapo cerimonioso di colore blu diffuso, una sorta di casco costituito da minuscoli dischi circolari che si infilava sul capo, anch’esso adornato degli stessi stemmi emblematici delle tiare regali, ugualmente simbolo della regalità.

Un copricapo solenne era il nemes, una sorta di cuffia in lino che avvolgeva il capo aprendosi lateralmente ad esso in due ampie ali per poi ricadere sul petto con due falde, ciascuna per lato, e provvista di una coda serrata sul retro. Realizzato in tessuto decorato a strisce oro e blu, aveva al centro della fronte il tipico uraeus con i simboli dell’avvoltoio e del cobra.  Un esempio di grande rilevanza é la maschera funeraria del faraone Tutankhamon, realizzata sulla base dei connotati del volto del giovane monarca defunto con numerosi strati d’oro massiccio, intarsiato con pietre semi-preziose, tasselli di ceramica e presenze di lapislazzuli sul contorno degli occhi e sulle tempie.

Ma il copricapo per antonomasia era il klaft, indossato da entrambi i sessi, il quale composto da due lembi di stoffa rigata in lino in forma rettangolare che, aderenti sulla fronte e sulle tempie, scendevano sulle spalle, nascondendo o meno le orecchie sui lati, serrato sul capo da un cerchio metallico o un diadema, il cui tessuto pregiato era fornito di sottili lamine d’oro disposte orizzontalmente su linee parallele  che ne arricchivano smisuratamente la foggia.

Esistevano una serie smisurata di tiare, copricapi e diademi, specie femminili, dalle linee e fogge molto particolari che per la  straordinaria bellezza e voluminosità dovevano essere indossate soltanto durante le cerimonie solenni.

Un accessorio prettamente religioso molto particolare di notevole importanza era l’ankh, conosciuto con il sinonimo di croce ansata o croce della vita, considerato un antico simbolo sacro del popolo egizio simboleggiante la stessa vita, indossato come pendente sul petto oppure legato sul gomito o tenuto semplicemente in mano, spesso decorato con effigi di dei, rappresentava un simbolo mistico e sacrale, sovente utilizzato come amuleto poiché capace di infondere salute, benessere e fortuna.

Il popolo egizio, contrariamente, usava berretti dalla linea più semplice realizzati in cuoio o in stoffa più compatta meno pregiata.

Una caratteristica molto importante era l’acconciatura. Il popolo egizio il più delle volte aveva la consuetudine di radere completamente i capelli, a rispetto delle norme di igiene e pulizia verso le quali erano particolarmente legati, indossando al di sopra delle sontuose parrucche sovente adorne di fili d’oro intrecciati a scacchiera. Esse potevano essere addirittura tinte nei colori più disparati. Gli uomini, nonostante usufruissero della capigliatura posticcia corta, preferivano lasciare intravedere il capo rasato, magari indossando l’apposito copricapo. Un taglio particolare era rappresentato da un lungo lembo di capelli lasciato penzolare su un lato dalla testa, il quale veniva legato e adornato con appositi gioielli, paste vitree o smalti.

Nonostante gli uomini prediligevano un viso completamente imberbe e ben terso, la barba posticcia era considerata una caratteristica di elevato privilegio, a punta, ondulata e piuttosto lunga veniva esibita soltanto durante le cerimonie pubbliche solenni e le occasioni festive, collocata al di sotto del mento e trattenuta da un legaccio sottile che veniva legato dietro le orecchie. Anche la regina Hatshepsut ne usufruì, in veste di regnante, esibendo l’accessorio vistoso come emblema di potere poiché insignita del titolo faraonico. Per i dignitari e i monarchi, specie nel Medio Regno, le barbe erano più corte rispetto a quelle mostrate in pubblico dal faraone.

Un aspetto ulteriormente importante era il trucco, sobrio ed evidente per gli uomini, molto elaborato ed accentuato per le donne. Gli occhi erano cerchiati mediante una linea grossolana di color nero che delineava le palpebre sui lato superiore e inferiore, tinteggiate di ombretto verde o blu, allungandosi fino alle tempie; questo procedimento conferiva all’occhio un aspetto più grande. Le labbra venivano colorate di rosso carminio, le gote guarnite di rosso e di bianco. Le unghia delle mani e dei piedi venivano puntualmente colorate in rosso con l’henné.

a cura di Marius Creati

 

Gli Egizi (parte III)

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L’abbigliamento femminile era abbastanza simile a quello maschile, si trovano infatti pochissime variazione nella foggia tra l’uomo e la donna egizia, in tal caso il sesso femminile tendeva piuttosto ad accentuare l’esiguità della silhouette velando il corpo piuttosto che nasconderlo mediante l’uso degli indumenti. Schiave e danzatrici erano spesso nude o al massimo indossavano una semplice gonna di lino fermata in vita da una cintura di corda. La gonna era sovente indossata anche dal sesso femminile di ceto elevato, corredata da una sorta di coprispalla che copriva le spalle e il seno, ma solitamente indossavano la Kalasiris, una tunica lunga a maniche corte, con o senza cintura, a volte impreziosita da un ricco grembiale adornato di preziosi come per gli uomini. La kalasiris era l’indumento principale delle donne egizie, confezionato in lino molto leggero dalla linea sciolta, anche se si sono riscontrate alcune versioni allacciate con nastri molto lunghi cascanti sul corpo, ma a volte poteva assumere fogge diverse dalle linee più semplici o più aderenti e, occasionalmente, anche sorrette da spalline o da minute bretelle, quest’ultima versione tagliata sotto il seno scendeva più o meno sfiancata su tutto il corpo fino alle caviglie. Il tessuto generalmente veniva pieghettato fittamente, oppure a volte impreziosito con applicazioni di pietre, lapislazzuli o perline, addirittura anche dipinto, e quando la fattura era molto leggera presentava una trasparenza eccessiva.

Al di sotto solitamente corredavano il vestiario con sottovesti a guaina, aderenti sul corpo, dalle fogge più semplici come per le inservienti, lavorate ad esempio con intrecci retinati di fili di cuoio, oppure finemente ricamate con preziosi ricami o munite di preziosi e perle.

L’indumento proveniente dal mondo orientale assunse una particolare attenzione anche nell’ambito del vestiario femminile, con la sottile differenza che per le donne il tessuto, dopo essere stato drappeggiato sul corpo, veniva raccolto all’altezza del seno legando i lembi al di sotto delle protuberanze.

Le calzature erano il capo più prezioso dell’abbigliamento, per siffatto motivo entrambi i sessi le portavano in mano durante i tragitti per poi indossarle esclusivamente una volta arrivati a destinazione. In diverse raffigurazioni é curioso constatare appunto che i servi portavano le calzature tra le mani accompagnando i loro signori durante i vari spostamenti. Gli Egizi infatti quando non andavano scalzi, quasi una consuetudine per questo popolo antico, calzavano un sandalo succinto realizzato in cuoio o in papiro intrecciato, fissato con un lembo che separava l’alluce dall’indice, che a sua volta si intersecava con il sottile mascherino disposto sul collo del piede, e provvisto di una minuscola ritorsione verso l’alto sulla punta. Una versione più sofisticata, esclusivamente adornata di vistosi gioielli, veniva indossata per cerimonie e funerali.

L’abbigliamento del popolo egizio, secondo quel che é emerso dai vari reperti rinvenuti, traduceva assolutamente il tono severo delle abitudini, a differenza ad esempio delle civiltà attigue; in effetti siffatta austerità si avvertiva anche nell’uso del colore e delle decorazioni dei tessuti, la quale veniva smussata ricorrendo all’uso di accessori personali e ornamenti elusivi che si assimilavano alle fogge perfettamente divenendo quasi un amalgama con il vestire. C’é da ribadire che gli artigiani avevano un’ottima padronanza delle tecniche di lavorazione dei metalli e delle pietre preziose, nonché si presuppone che l’osservanza rigorosa delle linee prevedeva la realizzazione di accessori ornativi prestabiliti e non occasionali, in funzione dell’importanza assunta rispetto alla foggia.

Gli egizi usavano una svariata molteplicità di accessori ornamentali: anelli per dita e caviglie, bracciali, collari, collane, cinture e diademi.

Un esempio era il diadema reale, realizzato in oro, composto da una fascetta intarsiata a motivi floreali in ceramica blu e munita sul davanti dalla figura del cobra e dell’avvoltoio.

a cura di Marius Creati

 

Gli Egizi (parte II)

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Se oggi abbiamo un lauto riscontro sulla divulgazione del costume egizio lo si deve in gran parte allo studio scrupoloso di attenti studiosi, i quali hanno scandagliato le immagini del passato con estrema accuratezza e meticolosità allo scopo di comprenderne  l’interpretazione del vestiario. Risulta interessante constatare che la riproduzione figurativa delle vesti tendeva a renderne più aderenti i modelli sul corpo rispetto alla vestibilità acquisita nella realtà. Anche per l’artista egizio, come per quello babilonese e assiro, si ripeteva la medesima semplificazione pittorica dei soggetti che spesso prevedeva l’eliminazione delle pieghe e delle balze al fine di dare maggiore risalto al profilo della figura e ai motivi decorativi del tessuto.

Il popolo nilotico, a differenza di quello sumero, abbandonò immantinente l’uso delle pelli per adottare un tessuto più leggero di migliore qualità o praticità, o probabilmente per ragioni legate al credo religioso. L’Egitto era un territorio invaso da un clima molto caldo e secco, attenuante che favoriva l’uso di indumenti piuttosto succinti, nonché spesso copiosamente discinti per la maggior parte del corpo.

L’impiego della lana veniva evitato perché era considerato un prodotto impuro; al massimo era utilizzato per confezionare mantelli pesanti, ma era rigorosamente proibito introdurne vestiario manufatto all’interno dei templi, come pure ne era interdetto l’impiego per la sepoltura dei defunti. In definitiva gli Egizi prediligevano l’uso delle fibre vegetali, impiegate nella tessitura dei materiali più leggeri, quindi più adatti al clima intenso.

All’inizio della civiltà la fibra vegetale largamente diffusa era la palma, la quale venne in seguito soppiantata da altre fibre di migliore qualità, grazie allo sviluppo delle tecniche agricole e del sistema di irrigazione, le quali permisero la diffusione della coltura del cotone e soprattutto del lino, che divenne in breve tempo la fibra più diffusa grazie ai suoi molteplici impieghi. Questo materiale consentiva di essere tessuto finemente rispetto agli altri, per cui risultava idoneo per affrontare le varie giornate assolate e afose alle quali la popolazione era sovente sottoposta; inoltre il colore biancastro ne consentiva un facile lavaggio oltre, all’importanza che il colore bianco assumeva in tema religioso, al quale erano legati diversi significati liturgici di carattere sacro.

Scriveva lo storico greco antico Erodoto sul costume egizio: “Si vestono di tuniche di lino, guarnite di frange pendenti sulle gambe che chiamano calasiris (kalasiris), su di esse gettano mantelli di lana bianca ma… vestiti di lana non entrano nei templi, ne si fanno seppellire che sarebbe sacrilegio… il lino deve essere la veste dei sacerdoti e di papiro i calzari”.

In effetti gli Egizi prediligevano la pulizia del corpo e delle vesti con i quali si adornavano. Conferma nuovamente Erodoto: “Indossano vesti di lino, fresche di bucato e hanno una cura particolare per mantenerle sempre immacolate, poiché danno più importanza alla pulizia che agli ornamenti”.

L’abbigliamento egizio in generale era particolarmente esiguo per entrambi i sessi.

All’inizio della dinastia faraonica bambini e schiavi non indossavano nulla, ma rimanevano praticamente nudi, anche se solitamente nelle pitture tombali non erano raffigurate immagini umane prive di vesti poiché l’indumento rappresentava un simbolo estremamente importante della condizione sociale, ragion per cui la presenza schietta di figure ignude sarebbe stato considerato di cattivo auspico per la casta del defunto nella sua vita ultraterrena. L’abbigliamento infantile infatti era pressoché identico a quello degli adulti, ovviamente in misura più esigua, ma sovente i bambini erano dispensati dal dover indossare indumenti di varia foggia.

Il popolo maschile usualmente indossava il pano, una sorta di perizoma, simile ad un minuto gonnellino, composto da un succinto lembo di stoffa rettangolare di tessuto greggio, spesso cotone, il quale veniva avviluppato intorno al fianco, incrociato sul davanti, in modo da coprire gli organi sessuali.

Gli uomini appartenenti alle classi più agiate indossavano invece lo schenti (schentis), un indumento di lino simile al pano, nel senso che anch’esso inizialmente consisteva in una fascia avvolgente cinta sui fianchi, ma successivamente divenne dall’aspetto più ricercato, soprattutto per le classi più abbienti, in quanto fu arricchita da una minuta pieghettatura. Diversi furono i modi per indossarlo, il più comune era quello di far scivolare diagonalmente il tessuto sui fianchi piegando un capo in vita mentre l’altro veniva lasciato penzolare sul davanti. Lo schentis in breve divenne l’indumento base di faraoni, principi, sacerdoti, alti dignitari e comandanti dell’esercito. Il tessuto di lino indossato dal Faraone era di estrema finezza, facilmente pieghettato e drappeggiato sul corpo; in seguito la parte anteriore fu corredata di un triangolo di stoffa di lino, pieghettata e inamidata, o addirittura di cuoio, mentre i suoi lati venivano trattenuti da giunchi o fili di metallo. Esso veniva indossato da tutti a torso nudo, indistintamente dalla classe sociale di appartenenza.

Giunti quasi alla fine del III millennio a. C., lo schentis venne quasi completamente soppiantato da una gonna, anch’essa composta da un unico rettangolo di lino avvolgente sui fianchi, ma dalla diversa lunghezza, da metà coscia fino al polpaccio, indossata a seconda delle diverse fogge acquisite: la versione più semplice consisteva nel far scendere l’indumento aderente sul dorso per riunirsi davanti in una doppia piega, ma i nobili preferivano indossare una seconda versione più elaborata in cui il tessuto eccedente confluiva in vita, dalla quale poi si apriva un fastello di pieghe disposte accuratamente a ventaglio. La vita veniva spesso corredata di una cintura policroma finemente decorata con applicazioni di preziosi, paste vitree, pendagli d’oro e di smalto, dal quale scendeva una sorta di pannello triangolare, simile a un moderno grembiule, ampiamente ricamato e anch’esso tempestato di pietre preziose. La foggia del presunto grembiale fu adottata anche dalle classi inferiori, ma ovviamente privo delle decorazioni elaborate che distingueva la classe nobiliare e la casta sacerdotale ai piedi della dinastia faraonica.

Durante il Medio Regno fu introdotto un nuovo indumento, una sorta di tunica di varia lunghezza (kalasiris) dal ginocchio alla caviglia simile ad una lunga camicia corredata di maniche corte, confezionata in diversi tessuti, ma le vesti indossate dai faraoni erano spesso talmente sottili da essere addirittura trasparenti, indossato al di sotto di uno schentis o di un grembiale, appena summenzionati. La classe media, nonché quella dei mercanti, indossava un tunica simile a quella descritta, ma confezionata con materiale più grossolano, una tela di lino meno pregiata sovente stretta in vita da una cintura succinta.

Ma l’indumento più elaborato, senza dubbio, proveniva da una linea presa in prestito alle civiltà dell’Asia Minore: la veste si corredava di una voluminosa stoffa rettangolare di tela di lino, mediamente lunga il doppio della statura della persona che doveva indossarla; essa veniva ripiegata su se stessa formando ampie maniche, provvista di una fessura per infilare la testa, e aveva due tagli cuciti sui lati dalla vita fino all’orlo; inoltre veniva bloccata in vita da una cintura.

Una figura alquanto bizzarra nel vestire era quella del sacerdote, il quale per onorare un rito sacrale, indossava una veste coprente tutto il corpo, al di fuori delle spalle, confezionata con pelle di leopardo, munita di coda penzolante, con il quale egli assolveva le sue funzioni religiose.

L’abbigliamento militare era poco dissimile da quello civile, infatti i soldati indossavano una sorta di divisa molto leggera generalmente corredata di uno schentis o, in caso contrario, di una gonna munita di grembiale di cuoio e una piastra pettorale sul torace.

a cura di Marius Creati

 

Gli Egizi (parte I)

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Circa cinquemila anni fa, nel IV millennio a.C., la civiltà del popolo egizio, nato e diffuso sulle sponde del fiume Nilo, raggiunse un elevato livello di sviluppo, pressoché in contemporanea con la crescita delle contigue civiltà dei Sumeri, degli Assiro-Babilonesi, dei Fenici e degli Ebrei, ubicati nelle zone dell’Asia occidentale, le quali erano incrementate in opportune comunità organizzate e indipendenti tra loro, costituite da città-stato come ad esempio per la Sumeria, a differenza dell’Egitto che assumeva invece l’impronta di una vera nazione compatta e ben salda che, pur vantando l’estensione di un vastissimo territorio, preferì rimanere ancorata lungo un esiguo lembo di terreno fertile conteso all’arido deserto grazie all’influenza delle acque del prodigioso fiume, esteso ancora oggi per oltre mille chilometri.

Trentuno dinastie monarchiche, testimoniate da antichi scrittori e vasti ritrovamenti archeologici, si susseguirono durante l’arco di trenta secoli suddividendo l’intera epoca in quattro principali periodi estremamente importanti: Antico Regno (dal 2850 al 2052 a.C. – dalla I alla X dinastia), Medio Regno (dal 2052 al 1570 a.C. – dalla XI alla XVII dinastia), Nuovo Regno (dal 1570 al 525 a.C. – dalla XVIII alla XXVI dinastia), Bassi Tempi ( dal 525 a.C. al 395 d.C. – dalla XXVII alla XXXI dinastia e dominazioni straniere).

Il popolo degli Egizi era suddiviso in una gerarchia strettamente prestabilita, dotato di enorme tenacia nelle abilità tecniche e grande raffinatezza nei costumi, considerando oltre tremila anni di potere gestito esclusivamente, tranne sporadiche interruzioni temporanee, dai Faraoni, i quali imponevano la loro egemonia, incentrata sulle tradizioni ferree, manifestata da rigide imposizioni che, in qualche modo, si riflettevano anche sul costume e sull’abbigliamento. La suddivisione in classi distingueva essenzialmente tre categorie in ordine di importanza sulle quali dominava la figura del monarca, il faraone: la classe elevata dei principi, dei sacerdoti e degli architetti; la classe distinta dei militari; la classe intermedia del popolo composta prevalentemente da operai, artigiani e agricoltori. Ad essi si aggiungeva una numerosa categoria inferiore, denominata degli impuri, costituita prevalentemente da schiavi, spesso asiatici e negri. Il dominio del potere era regolato da due enormi forze paritetiche: la religione, poiché il re faraone era considerato un dio vivente sulla Terra, e la tradizione, inviolabile e insostituibile neppure sotto l’influenza dei traffici e delle sporadiche invasioni occasionali. Infatti dai reperti si riscontrano saltuari cambiamenti del costume durante tutto il periodo faraonico.

Il popolo nilotico era fortemente legato al credo dell’aldilà, convinto che l’onorare i propri defunti con un equipaggiamento appropriato serviva a condurli nel luogo di riposo durante il loro viaggio ultraterreno, ragion per cui le tombe erano gremite di oggetti e arredi di vario genere, generalmente preziosi, tra i quali gioielli, cosmetici, vesti, ma anche utensili e ammennicoli adatti alla vita quotidiana.

Il clima caldo e secco non é dissimile da quello della Mesopotamia, ma fondamentalmente risulta meno umido e quindi più proficuo alla conservazione dei manufatti.

La geometria era una deduzione matematica prevalentemente utilizzata nelle varie raffigurazioni mediante la sistematica rappresentazione delle linee geometriche, spesso visibili nei solchi dell’aratro, nella pianura della terra e nei fusti delle palme, come nel disco del sole, in rappresentanza della somma divinità dal quale si irradiano i raggi di luce vitalizzanti, collocato al vertice del triangolo, considerato un simbolo sacro, il cui lato base simboleggiava la terra, a testimonianza delle varie piramidi dalla tipica forma triangolare.

Lo stile dell’arte egizia é pressoché spontaneo nei movimenti, nonostante conservi una propria caratteristica originale prestabilita a schemi piuttosto fissi, specie all’inizio della civiltà, e scevro da influenze esterne. Il senso estetico era fortemente avvertito e la natura, in tutte le sue forme, specie e caratteristiche, rappresentava un’inesauribile fonte d’ispirazione. L’arte egizia trova la sua completa rivelazione nel mero simbolismo, trasfigurato dalla realtà tradotta in chiave poetica e ideale, ampiamente diffusa nelle iconografie, derivante da un elevato valore della spiritualità, manifestato altresì nell’espressione ideografica. L’uso della scrittura geroglifica risulta oggi un’immensa fonte d’informazione per gli archeologi che ne studiano costantemente la cultura, le tradizioni e le usanze, poiché gli Egizi avevano l’abitudine di trascrivere gli eventi più significativi del loro vissuto che, grazie all’ausilio delle pitture murali, delle sculture, dei manufatti e dei reperti del vestiario, hanno consentito di apprendere tutti gli aspetti salienti della vita condotta nell’antico Egitto faraonico durante quei tremila anni di storia del fantastico periodo dinastico. Ma, come in ogni civiltà intensamente legata alle convenzioni, l’artista delle pitture murali era costretto all’osservanza di taluni regole prestabilite e quindi condotto all’uso di una linea prettamente stilizzata dato che anche la figurazione artistica  tendeva a compiacere il dio piuttosto che a divulgare una mera rappresentazione realistica.

a cura di Marius Creati