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Cavallo di Troia, tra mito leggenda e origini

November 28, 2021 Leave a comment

Il mito del cavallo di Troia 

Il mito del Cavallo di Troia, che narra l’astuto stratagemma degli Achei per conquistare la città situata nell’attuale Turchia, presente per la prima volta nel poema omerico dell’Odissea e non nell’Iliade che si chiude con la morte di Patroclo, è sicuramente uno dei più conosciuti dell’antichità. La sua fama è giunta integra fino ai nostri giorni, tanto è vero che l’espressione “utilizzare un cavallo di Troia” è diventata, nel linguaggio comune, equivalente a compiere uno spregevole inganno.  Ma si trattò davvero di un “cavallo di legno”, o vi sono fondati elementi per ritenere che si trattasse di qualcosa di diverso. Cercheremo, in questa breve trattazione, di fare chiarezza in merito. Innanzitutto è opportuno ripercorrere i punti salienti del racconto, così come proposto dalla versione tradizionale.

L’episodio, come è noto, è descritto da Omero nell’Odissea, solo in maniera incidentale e, successivamente, ampliato e modificato nell’Eneide di Virgilio, con scopi di carattere celebrativo per sottolineare la grandezza del “princeps” Cesare Ottaviano Augusto. Enea, principe ed esule troiano, avrebbe raccontato l’episodio alla regina di Cartagine, Didone, perdutamente innamorata di lui, prima di fuggire per raggiungere le coste del Lazio, dove sarebbe divenuto il capostipite della genealogia fondatrice di Roma.  Lo stratagemma sarebbe stato ideato da Ulisse e ispirato dalla stessa dea Atena (Minerva per i Romani), allo scopo di mettere fine al lungo e sanguinoso conflitto con la città di Troia (Ilion) che, con la sua opulenza ed ampia sfera di influenza politica, ostacolava l’espansione commerciale dei Greci dell’età arcaica, al di là dell’espediente letterario del rapimento di Elena da parte di Paride. Seguendo il piano concepito da Ulisse, i Greci finsero di abbandonare la guerra e di tornare verso la loro patria, lasciando sulla spiaggia un imponente cavallo di legno, in apparenza vuoto, ma che in realtà nascondeva al proprio interno i più coraggiosi militari achei, tra cui lo stesso sovrano dell’isola di Itaca. Lo stratagemma era ben congegnato e nulla era stato lasciato al caso. Per convincere i Troiani sulla veridicità dell’evento ed accettare il dono, il giovane Sinone si finse disertore e spiegò a Priamo, il re di Troia, che il cavallo era stato lasciato per placare le reazioni iraconde della dea Atena, a causa della profanazione del suo tempio perpetrata da Ulisse. A ciò, il giovane Sinone, per rendere ancora più credibile il suo racconto, aggiunse che il dono avrebbe protetto i Greci nel ritorno verso casa e che il cavallo era stato costruito in dimensioni così considerevoli da non poter essere condotto attraverso le porte della città. A questo punto, i Troiani provocano grandi brecce nelle mura della città, per consentire al cavallo di essere introdotto all’interno, nonostante gli accorati avvertimenti del sacerdote Lacoonte, divorato immediatamente dai serpenti marini. Anche la profetessa Cassandra, che aveva su di sè la maledizione di prevedere con esattezza il futuro, ma di non essere creduta, pregò suo padre Priamo, affinchè non credesse alle parole di Sinone. Le invocazioni di Lacoonte e di Cassandra rimasero inascoltate ed il sovrano si convinse della sincerità dello spergiuro Sinone che, per rincarare la dose, riferì a Priamo che la dea Atena avrebbe perseguitato la città di Troia, se i suoi abitanti avesse distrutto il dono, voto religioso degli Achei. Con l’ingresso del cavallo tra le mura della città, fino ad allora considerata inespugnabile, i Troiani andarono in maniera inesorabile incontro alla loro rovina.

Gli storici si sono chiesti se effettivamente la grande opera di legno si possa considerare un cavallo stilizzato oppure se avesse un’origine diversa. I primi dubbi furono avanzati già in tempi remoti, come scrive Pausania nel II secolo d.C.: “che quello realizzato fosse un marchingegno per abbattere le mura e non un cavallo, lo sa bene chiunque non voglia attribuire ai Frigi una assoluta stupidità. Tuttavia la leggenda sostiene che si tratti di un cavallo”. Recenti ipotesi ritengono che il famoso stratagemma di legno non fosse altro che un ottimo esemplare di un particolare tipo di imbarcazione e che l’equivoco millenario sul “cavallo” derivasse da un errore di traduzione del poema omerico, ripreso secoli dopo anche da Virgilio. Il termine “hippos” non indicherebbe l’intelligente quadrupede, ma una nave di fattura fenicia, abbastanza diffusa in quell’epoca nelle acque del Mar Mediterraneo.                                 Riferimenti a questo tipo di imbarcazione li ritroviamo negli scritti di Plinio il Vecchio che attribuisce l’invenzione della stessa ad un capace maestro d’ascia fenicio, chiamato appunto Hippos. A memoria di questo personaggio, le navi sarebbero state dotate di un speciale polena: la testa equina. A quelle già esposte, bisogna aggiungere un’ulteriore considerazione, sottolineando, come il leggendario Omero o il vero autore dei suoi poemi, fosse a conoscenza delle specifiche attività militaresche achee e di come fossero particolareggiate nei suoi scritti le descrizioni delle tecniche di costruzione delle imbarcazioni. E’ probabile che proprio la disinvoltura con la quale Omero nominasse l’hippos, senza specificare che si trattasse di una nave, dando per scontato che i lettori ne comprendessero il significato, abbia ingenerato l’equivoco che ha portato a credere nel vero e proprio cavallo di legno. Lo stesso Virgilio, quando nell’Eneide si occupa dell’imponente animale, fornisce nozioni su alcune tecniche di costruzione navale dell’epoca della guerra di Troia. Il poeta riferisce di come il cavallo fosse stato costruito partendo dal guscio esterno e di come le “murate”, sostantivo del gergo marinaresco per indicare le fiancate della nave, fossero formate da materiale ricavato dall’abete, mentre la costolatura interna di rovere. Si tratta di una tecnica di costruzione perfettamente corrispondente a quella che si usava per confezionare le navi dell’epoca, soprattutto in ambito fenicio. L’identificazione dello straordinario marchingegno con una nave renderebbe la vicenda più credibile, alla luce anche del fatto che le navi fenicie di questo tipo godevano di un ottimo prestigio, in quanto erano usate, in primo luogo, per trasportare materiale prezioso e di valore, nonchè per riscuotere tributi, potendo risultare ancora più appetibile agli occhi degli ingenui Troiani. Il gruppo di guerrieri greci, inoltre, avrebbe potuto nascondersi meglio nella doppia stiva di un’imbarcazione, piuttosto che nella pancia cava di un cavallo. Da non trascurare la descrizione data da Omero sulle modalità di trasporto dell’oggetto nella città di Troia: questo sarebbe avvenuto mediante “allaggio”, un noto sistema di rotolamento su rulli che anticamente si adoperava per il rimessaggio delle navi, al termine del periodo di navigazione.

Del reale significato da attribuire al “cavallo di troia” sono state date, tuttavia, anche altre interpretazioni. Alcuni esponenti della storiografia moderna hanno fatto leva sulla simbologia tradizionale del “cavallo”, oppure della stessa trasfigurata su un piano metaforico, per implicare magari un cataclisma naturale, come un devastante terremoto che avrebbe distrutto le mura della città di Troia, consentendo agli Achei di accedervi facilmente. Seguendo questo schema teorico, il cavallo starebbe ad indicare un voto a Poseidone, il dio del mare, ma anche la divinità preposta alla protezione dei cavalli ed a favorire maremoti e terremoti.  A sostegno di tale ipotesi vi sarebbero i ritrovamenti, durante gli scavi condotti nel sito dell’antica Troia, di chiari resti di un forte sisma. Nel corso dei secoli, su quel territorio, si sarebbero stratificate ben dieci città ed i segni di un’intensa attività tellurica sono stati individuati un pò ovunque. Gli stessi Achei avrebbero potuto dare una spiegazione soprannaturale all’evento, ringraziando Poseidone per aver risolto un conflitto che ormai si trascinava da anni e lasciando sulla spiaggia un segno tangibile di ringraziamento, un gigantesco cavallo, animale peraltro sacro al dio. Altri storici hanno ipotizzato che il cavallo di Troia si potesse identificare con un ariete da assedio a forma di cavallo, il cui mito si sarebbe trasformato nel corso dei processi di tradizione orale che ne avrebbero consolidato la posteriore memoria.

Sul numero effettivo degli uomini appostati nel cosiddetto “cavallo”, le fonti tradizionali sono molto discordanti. Dando credito alla “Piccola Iliade”, un poema poi andato perduto, essi erano soltanto 13, un numero abbastanza esiguo ed improbabile per impadronirsi della città, mentre per Apollodoro ve ne erano 50; Quinto Smirneo elenca il nome di ben 30 condottieri, affermando che questi erano affiancati da molti altri uomini. Nella tradizione classica fu stabilita una serie di 35 uomini, ovviamente capeggiati da Odisseo (Ulisse). L’unica certezza è che non sarà mai possibile stabilire la verità sul numero esatto dei componenti alla mitica spedizione.

In sintesi, la storia del cavallo di Troia si basa su una serie di paradossi. In primo luogo è un paradosso che gli Achei scelgano proprio quel metodo per espugnare la città, come rappresenta un paradosso il fatto che i Troiani si siano fidati così ciecamente delle affermazioni di Sinone, senza sospettare alcun inganno; è altrettanto un paradosso che i principali condottieri dell’impresa siano tre uomini di grandissimo valore, ciascuno insignito da meriti diversi: Ulisse, come mente del tranello, Epeo come artefice effettivo e Neottolemo per la sua capacità guerriera. Il racconto sintetizza in maniera magistrale il comune sentire religioso degli uomini della Grecia preclassica, con il loro indomito coraggio e con le loro superstizioni che non offuscavano, però, lo spirito pratico ed un elevato ingegno, ricorrendo anche a metodi non ortodossi.

Al di là del mito, si collocano i fatti storici, sui quali l’archeologia moderna sta facendo chiarezza, riuscendo a trovare testimonianze significative del conflitto cantato da Omero, nel territorio dell’antica Troia, risalenti al tredicesimo secolo a.C., presumibilmente il periodo a cui si riferiscono Omero e Virgilio nei loro poemi, scritti alcuni secolo dopo ed aventi come fonti una tradizione che si tramandava oralmente.

Fonte: Il Sapere

Cavallo di Troia… “In realtà era una nave”, secondo l’archeologo Francesco Tiboni

January 25, 2018 Leave a comment

Hippos Fenicio dal rilievo di Kohrsabad-kax-U110179952308348G-1024x588@LaStampa.it

È quanto sostiene Francesco Tiboni: «Hippos era una imbarcazione fenicia»

Il Cavallo di Troia non era un cavallo, ma una nave. È quanto sostiene, da circa un anno, un nostro “cervello in fuga”, l’archeologo navale Francesco Tiboni, dottore di ricerca dell’Università di Marsiglia, collaboratore di diverse università e enti stranieri ed italiani.

L’equivoco millenario sarebbe nato da un errore nella traduzione dei testi successivi a Omero, ai quali si ispirò lo stesso Virgilio (avvalendosi di un traduttore) per comporre l’Eneide. Secondo Tiboni, il manufatto realizzato dai greci per penetrare nelle mura di Troia non sarebbe stato letteralmente un cavallo, in greco hippos, bensì un tipo di nave fenicia che veniva abitualmente chiamata “Hippos”, appunto.

Plinio il Vecchio sembra spiegare il perché di questa denominazione riferendo che tale imbarcazione fu inventata da un maestro d’ascia fenicio il cui nome era Hippus. Queste navi, non a caso, erano dotate di una caratteristica polena: una testa equina.

I primi dubbi sul cavallo erano stati ventilati già in tempi antichissimi, da Pausania che, nel II sec. d.C. scriveva: «Che quello realizzato fosse un marchingegno per abbattere le mura e non un cavallo lo sa bene chiunque non voglia attribuire ai Frigi un’assoluta dabbenaggine. Tuttavia la leggenda dice che è un cavallo». In età moderna, altri studiosi hanno accennato al fatto che potesse trattarsi di una nave, ma era necessario un archeologo con specifiche competenze nel settore navale per trovare e mettere insieme un puzzle di indizi tecnici rivelatori.

L’episodio dell’Eneide

Vale la pena di ricordare brevemente l’episodio narrato da Omero, ripreso e ampliato, secoli dopo, da Virgilio. Dopo dieci anni di assedio alla città di Troia, i Greci mettono in pratica un’astuzia ideata da Ulisse ed ispirata da Atena in persona. Fingendo di abbandonare l’impresa e di tornare in patria, lasciano sulla spiaggia un enorme cavallo di legno, vuoto, che nasconde al proprio interno i più valorosi guerrieri achei, tra cui lo stesso re di Itaca. Il giovane greco Sinone, fingendo di aver disertato, spiega a Priamo, re di Troia, che il cavallo è stato lasciato per placare l’ira di Atena, offesa per la profanazione del suo tempio compiuta da Ulisse. Tale dono avrebbe dovuto proteggere il ritorno a casa dei Greci, ed era stato costruito in dimensioni tali che i troiani non avrebbero potuto portarlo dentro la città. Nonostante gli avvertimenti del sacerdote Laooconte – che viene subito divorato da serpenti marini – i troiani praticano una breccia nelle loro mura tanto da far entrare il “cavallo” nell’inespugnabile Ilio. In questo modo firmano la loro condanna a morte, dato che nottetempo i greci usciranno dal ventre del cavallo e conquisteranno la città.

L’equivoco millenario

«Omero– spiega l’archeologo Tiboni – conosceva perfettamente l’argomento marinaresco tanto da lasciarci una grande quantità di informazioni sulla tecnologia costruttiva delle navi antiche. Nell’Iliade ed ancor più nell’Odissea, il poeta elenca con tutti i particolari le imbarcazioni dei greci e, quando descrive ad esempio l’episodio della costruzione di una zattera da parte di Ulisse, spiega con grande precisione i legni, gli utensili e le tecniche di assemblaggio utilizzati. Tuttavia, proprio questa sua serenità nell’uso del linguaggio tecnico ha fatto sì che i poeti post-omerici che tramandarono le sue opere, ne travisassero alcuni passaggi. Per Omero, parlare di un “Hippos” equivaleva a indicare la nave fenicia di questa tipologia. Per i suoi epigoni, digiuni di cose di mare, divenne un cavallo vero e proprio».

Linguaggio tecnico

Del resto, solo un archeologo specializzato in navi antiche avrebbe potuto leggere tra le righe e comprendere perché i Greci avessero deciso di concludere a tutti i costi l’assedio di Troia. Omero scriveva, infatti, che le “cuciture” delle navi greche erano ormai fradicie e per questo avrebbero dovuto affrettare il ritorno in patria. I posteri e i traduttori hanno spiegato che con cuciture si intendevano le funi e le vele, ma il degradarsi di questi accessori forse non sarebbe stato così grave da costringere gli Achei al rimpatrio.

«In realtà – continua Tiboni – molti traduttori di Omero ignoravano che il fasciame delle navi greche fosse veramente cucito con grossi punti a croce di fibre vegetali, cosa che noi oggi sappiamo grazie ai relitti antichi. La decomposizione di queste cuciture, pericolosissima per l’integrità di tutto lo scafo, avrebbe richiesto migliaia di ore di lavoro per ricostruire quasi dal nulla le imbarcazioni: per questo, gli achei, non avevano altra alternativa che concludere la guerra».

Tra le righe di Virgilio

Del resto, lo stesso Virgilio, quando nell’Eneide narra della costruzione del monumentale cavallo, descrive, in realtà, proprio le antiche tecniche della cantieristica navale del periodo: scrive di come il cavallo fosse stato costruito partendo dal guscio esterno (cosa tecnicamente improbabile nel caso di un vero cavallo), di come le “murate” (termine marinaro per indicare i fianchi delle navi) fossero di abete, mentre la costolatura interna di rovere, esattamente come si faceva per costruire le navi antiche, in particolare quelle fenicie. Virgilio cita infatti un trave centrale in legno di acero che, nella storia dei relitti, trova riscontro solo in una nave: la famosissima nave punico-fenicia di Marsala, oggi conservata nel locale Baglio Anselmi.

Una vicenda più credibile

Dopotutto, scambiando il “cavallo” di Troia con una nave la vicenda narrata nell’Eneide non si snatura affatto, ma assume, anzi, contorni meno surreali e ben più credibili. La nave del tipo “Hippos” era solitamente usata per trasportare preziosi, pagare tributi e questo non solo avrebbe ingolosito ancor più i Troiani, ma avrebbe fornito un carattere più credibile di voto religioso in onore della dea.

Di certo sarebbe stato più semplice per i maestri d’ascia greci costruire una nave di un tipo ben conosciuto, piuttosto che improvvisarsi artisti e realizzare un cavallo.

Soprattutto, sarebbe stato molto più agevole nascondere nella doppia stiva di un’imbarcazione – piuttosto che nella pancia di un cavallo – il manipolo di guerrieri greci. Quanto al trasporto del cavallo all’interno delle mura di Troia, nell’Odissea Omero narra esplicitamente di un “alaggio”, un sistema di rotolamento su rulli che nell’antichità era utilizzato per il rimessaggio delle navi mercantili al termine della stagione di navigazione.

La scoperta e la comunicazione

Il Museo archeologico di Ventotene sorge su un sito noto per essere balzato anni fa agli onori della cronaca grazie alla scoperta di numerosi relitti sapientemente veicolata dall’equipe di ricercatori americani impegnati su di essi. La direttrice, Giovanna Patti, spiega: «Saper dare la giusta evidenza a certe scoperte è davvero importante. Certo, spesso, specie in Italia, non si rinuncia facilmente alla tradizione, e forse anche per questo motivo la teoria di Tiboni, le cui ragioni sono state prese subito molto sul serio dalla comunità archeologica internazionale, ancora suscita qualche diffidenza tra gli studiosi del nostro paese. Da noi l’eredità dell’idealismo crociano ha sempre lasciato in ombra il sapere scientifico rispetto a quello umanistico, ma, in moltissimi casi, è proprio la spiegazione tecnica a far piena luce su questioni storiche e letterarie dibattute. In questo caso, come già è stato per le scoperte che hanno arricchito il nostro museo, frutto di conoscenze e tecniche moderne ed interdisciplinari, occorre avere una visione espansa, che comprenda simultaneamente una quantità di indizi diversi».

Fonte: La Stampa

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Gornaya Shoria, sito megalitico di possibile natura artificiale in Siberia

December 9, 2017 Leave a comment

Gornaya Shoria

La partita si gioca tutta in Siberia: se dovesse essere confermata la natura artificiale del sito megalitico di Gornaya Shoria verrebbe automaticamente riscritta tutta la storia umana.

Nel cuore delle gelide montagne siberiane è stato riportato alla luce un antichissimo e sorprendente sito megalitico le cui origini sono tuttora oggetto di accesi e animosi dibattiti da parte dei ricercatori di tutto il mondo. Queste eccezionali strutture sono situate sulla cima del “Monte Shoria” a Gornaya Shoria, ad est delle fitte montagne meridionali di Altai, e sono stati trovati e fotografati per la prima volta nel 2013 dal ricercatore indipendente Georgy Sidorov, durante una spedizione organizzata proprio sui freddi luoghi siberiani.

Sembrerebbe esclusa l’ipotesi che si tratti di formazioni geologiche naturali, malgrado gli accademici e i geologi stessi si siano affrettati a precisare fin da subito il contrario, rifugiandosi come spesso accade in questi casi nella più sfrenata ortodossia.
Appare evidente invece attraverso le immagini, le riprese e i tanti dati raccolti sul campo dai ricercatori che hanno studiato personalmente il sito che siamo difronte a delle strutture artificiali, poiché i mastodontici blocchi presentano evidenti tagli simmetrici, superfici appiattite e sagomate, tagli operati in maniera orizzontale e verticale con angoli e spigoli a 90°.

Mura mastodontiche, non costruibili neanche con la tecnologia moderna

Questi sensazionali blocchi sia singoli che incastrati gli uni sugli altri sembrano rassomigliare in maniera sorprendente alle famose “mura ciclopiche” presenti in Europa, e più in generale sul suolo di ogni continente, come anche alle maestose piattaforme conosciute comunemente come “Trilithon”.

Ad oggi, si crede che la “Pietra di Janeen”, ovvero l’impressionante monolite rinvenuto nel 2014 in Libano presso il sito archeologico di Baalbek sia il blocco di pietra lavorato più pesante nella storia della terra, con il suo impressionante peso di 1660 tonnellate.

Qualora venisse ufficialmente confermata dai ricercatori la natura artificiale delle mura megalitiche di Gornaya Shoria verrebbe automaticamente riscritta la storia, poiché molte di queste gigantesche pietre di granito si stima possano arrivare a pesare addirittura oltre le 3.000 tonnellate, un peso assolutamente sconcertante, superiore addirittura di ben 2-3 volte ai più pesanti megaliti presenti a Baalbek, e più in generale di tutte le antiche rovine megalitiche rinvenute fino ad oggi sul vasto suolo terrestre.

Gli altri siti megalitici nel mondo

È ampiamente risaputo che i territori russi presentano un alto numero di antiche costruzioni megalitiche, che però sono state inspiegabilmente trascurate dagli storici e dagli studiosi nel corso degli ultimi secoli.
Solamente negli ultimi decenni, grazie anche all’interesse di tanti ricercatori indipendenti, molte di queste strutture sono state esplorate, fotografate e portate finalmente alla ribalta dell’opinione pubblica mondiale.

Un esempio sono i numerosi “Dolmen”, particolari strutture megalitiche preistoriche a camera singola, anch’essi presenti in ogni luogo terrestre.
Oppure le mirabili piramidi bosniache scoperte nel 2013 nella città di Visoko dall’archeologo freelance Semir Osmanovic e che, stando ad alcuni approfonditi studi, sarebbero addirittura da datare a 30.000 anni fa, ovvero decine migliaia di anni prima della nascita delle prime culture organizzate.

Certo, rimane il dilemma, il grande dilemma, di come blocchi di questa portata siano stati posizionati da normali esseri umani con una precisione maggiore di quella ottenuta nelle cave moderne, considerando anche che ad oggi (2017) il peso massimo attualmente issato dalla gru (fissa) più potente al mondo si aggira intorno alle 1000/1200 tonnellate.

Questi megaliti sono stati trasportati sulla cima del monte Shoria, come anche nel caso dei siti megalitici peruviani di Ollantaytambo e Machu Picchu, per poi venire assemblati in maniera così precisa da non lasciare spazi fra un masso e l’altro, e al punto tale che la lama di un coltello non riesce a penetrare negli interstizi.

Nessuna civiltà poteva secondo la storia produrre Gornaya Shoria

Stando alla storiografia ufficiale, sarebbe assolutamente impossibile che degli esseri umani che abitavano queste terre svariati millenni prima della nascita delle prime culture organizzate, in possesso nel migliori dei casi soltanto di vetusti utensili in pietra, siano stati capaci di realizzare delle architetture così sopraffine da apparire illogiche e misteriose persino agli occhi di uomini appartenenti ad un’epoca dal così alto livello tecnologico come quella attuale.

Appare quindi abbastanza evidente l’impossibilità di realizzare queste opere da parte delle genti dell’epoca, e ciò può significare solo una cosa, ovvero che in piena preistoria una grande civiltà globale con i suoi simboli e una potente capacità in campo edilizio, si stanziò sulla Terra e costruì maestose opere architettoniche nel bel mezzo del continente europeo e più in generale in ogni luogo del vasto spazio terraqueo.

Questa civiltà mostra anche una certa unità culturale, e la sua storia ha molto a che vedere con quanto riportato in tutte le antiche leggende e mitologie tramandate dagli uomini.
Certo, un’evoluzione fatta di piccoli e tortuosi passi, una stratificazione di montagne senza diluvi, una lenta e faticosa acquisizione di capacità cognitive, linguistiche, tecniche, artistiche, scientifiche, a partire dal tempo in cui ci siamo innalzati da terra diventando da quadrupedi bipedi, ogni giorno di più ha il sapore di una spiegazione buona solo per i tanti fratelli Grimm del Settecento, ma che oggi come oggi, alla luce delle evidenze archeologiche e paleontologiche non convince per nulla chi appena un po’ abbia il coraggio di mettersi semplicemente a pensare.

a cura di Giuseppe Di Re

Fonte: Nibiru 2012

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Archeoastronomia, allineamento astronomico dei megaliti

November 30, 2017 Leave a comment

allineamenti megaliti

L’interesse dell’uomo per il cielo è testimoniato fin dal Paleolitico. Nel Neolitico e durante l’Età del bronzo, in molte parti del mondo sono stati eretti numerosi megaliti disposti secondo forme geometriche ben definite, in prevalenza circoli ed ovali, ma anche veri e propri complessi templari allineati con i punti all’orizzonte in cui in quell’epoca sorgevano o tramontavano corpi celesti di particolare importanza. Monoliti e buche in cui in origine erano infissi dei pali, corridoi, pozzi e santuari di varia fattura realizzati tenendo ben presente la direzione del sorgere e del tramontare della Luna, del Sole o delle stelle più luminose visibili ad occhio nudo nel corso delle stagioni. Queste corrispondenze tra le pietre e il cielo oggi sono studiate dall’Archeoastronomia.

Questa scienza fornisce importanti informazioni sugli enigmatici monumenti realizzati prima della nascita della storiografia. Per quelle culture, evidentemente, gli eventi celesti con la loro periodicità inesorabile erano affidabili strumenti per predire le scadenze agricole e pastorali. Attraverso le grandi pietre gli antichi hanno traslato il cielo sul terreno, “fotografando” le levate eliache delle stelle, i solstizi e gli equinozi, le fasi lunari. Già intorno al XVI e XVII secolo alcuni studiosi incominciarono ad intravvedere possibili collegamenti tra i monumenti megalitici e gli astri. Nel XIX secolo Norman Lockyer dimostrò l’orientamento celeste delle piramidi egizie e dei monumenti megalitici europei, ma all’epoca la comunità scientifica non era ancora pronta ad attribuire conoscenze matematiche e astronomiche alle culture preistoriche e protostoriche. Questa disciplina ha trovato legittimazione poco più di una cinquantina di anni fa. La posizione della Stella polare, delle costellazioni e degli allineamenti celesti cambiano nel corso delle epoche per effetto del meccanismo astronomico noto come precessione.

Calcolando i puntamenti degli antichi megaliti è possibile ricostruire l’epoca approssimativa in cui le pietre sono state erette, sistema che può supportare gli archeologi nella ricostruzione del passato, quando i reperti databili rinvenuti nei siti sono scarsi o testimoniano occupazioni sovrapposte che possono confondere le stime. Gli antichi costruttori hanno spesso smontato e rimontato le grandi pietre, riposizionandole per mantenere le corrette corrispondenze celesti, a fronte del lento mutamento della volta celeste alla vista dell’osservatore terrestre. Le tracce dell’interesse dell’uomo per l’astronomia risalgono al Paleolitico superiore, come provano i numerosi calendari lunari ritrovati dagli archeologici. L’entrata della grotta di Lascaux, all’interno della quale si ritiene siano rappresentate alcune costellazioni come il Toro e le Pleiadi, è allineata con il solstizio d’estate. Nel Mesolitico e nel Neolitico le realizzazioni umane si fanno più complesse.

Il tempio di Gobekli Tepe, in Turchia, è il tempio in pietra più antico del mondo, risale a 11.500 anni fa. Le colonne a forma di T che compongono i cerchi megalitici sono decorate con altorilievi dalle forme animali. Secondo un’interpretazione, queste figure rappresentano le costellazioni come immaginate dagli uomini dell’epoca. Giulio Magli, professore ordinario presso la facoltà di Architettura civile del Politecnico di Milano, dove tiene un corso di Archeoastronomia , sostiene che tre degli anelli che costituiscono il tempio sono allineati con i punti dell’orizzonte in cui Sirio sarebbe sorta nel 9100, 8750 e 8300 a.C. Nel sito di Warren Campo, in Scozia, risalente a 10.000 anni fa, è presente una fila di dodici pozzi che rappresentano i mesi dell’anno e le fasi lunari del mese. L’attenzione per il cielo è proseguita anche nei millenni successivi. Le pietre del circolo megalitico di Nabta Playa, in Egitto, un sito che risale a un periodo tra i 6800 e i 5700 anni fa, sono allineate con i solstizi e con gli equinozi. Oltre al circolo di pietre principale, esistono due file di megaliti che continuano per chilometri, una in direzione nord ed una in direzione est. Secondo gli studi, la linea nord all’epoca era allineata con la costellazione dell’Orsa Maggiore, mentre quella a est era allineata con la costellazione di Orione.

I tanti megaliti della Bretagna sono stati eretti tra 6500 e 4000 anni fa e ancora una volta evidenziano un orientato astronomico. A Carnac, in Bretagna, lungo un territorio di una quindicina di chilometri, sono presenti numerosissimi menhir disposti in quattro allineamenti principali: gli studi eseguiti hanno permesso di riscontrare la corrispondenza degli allineamenti dei megaliti alla posizione del Sole nei giorni dei solstizi e con la posizione della Luna al sorgere e al tramonto. Nel sito megalitico di Morbihan, 135 dolmen su 156 sono orientati in base ai solstizi d’estate o d’inverno. Le strutture megalitiche di Malta e Gozo, realizzate prima dell’introduzione del bronzo nell’isola, datate all’incirca tra 6000 e 4500 anni fa, testimoniano la stessa attenzione per gli allineamenti celesti. Per esempio, i templi di Mnajdra e Hagar Qim (1200 anni più vecchi delle piramidi in Egitto e 1000 anni precedenti Stonehenge) vengono attraversati dai raggi del Sole durante i giorni di solstizio ed equinozio. Pure l’accesso al tumulo circolare di Newgrange, in Irlanda, un complesso megalitico risalente a 5200 anni fa, è stato progettato secondo criteri astronomici: nel giorno del solstizio invernale, il Sole al suo sorgere proietta un pennello di luce attraverso un’apposita apertura lasciata sopra l’ingresso.

Allo stesso modo, il vicino tumulo di Dowth è allineato al solstizio invernale, mentre un terzo tumulo, detto di Knowth, più antico di Newgrange di circa 500 anni, presenta due camere dirette rispettivamente ad est e ad ovest che indicano gli equinozi: all’entrata della camera est è anche presente una pietra con funzione di meridiana. Gli esempi sono infiniti: merita ancora ricordare il celebre sito di Stonehenge in Inghilterra, presumibilmente realizzato tra il 3100 e il 1600 a.C., Anche Stonehenge è un osservatorio celeste, già nel 1740 William Stukeley aveva notato gli allineamenti del monumento con il sorgere del Sole il 21 giugno e il tramonto il 21 dicembre. Gli studi hanno poi messo in evidenza i complessi calcoli relativi ai moti della Luna e alla cadenza delle eclissi.

Nelle cartine del megalitismo europeo non vengono adeguatamente considerate alcune zone importantissime, come Norvegia, Carelia e Penisola di Kola. Anche l’Europa centrale è ricca di megaliti, Germania e Svizzera su tutti, e così l’Est europeo, pensiamo a Romania, Bulgaria e Russia caucasica. Purtroppo queste aree restano misconosciute ai più. Ha ottenuto invece una più larga eco il sito di Carahunge in Armenia. Singolarmente o associate alle altre, le stesse tipologie megalitiche – d olmen, menhir, circoli di pietre, stanze scavate nella roccia, corridoi, altari e tumuli – sono presenti anche in tutto il continente americano, dal Canada al Cile, nell’Africa subsahariana, non solo sulla costa magrebina, poi ancora in Asia centrale, in India e in Estremo Oriente, dal Tibet al Giappone, sino all’area insulare del Sud-Est, perfino in Australia e nelle isole polinesiane del Pacifico. Ci troviamo di fronte a strutture con funzione dichiaratamente “sacra”, che rivelano il medesimo culto astronomico e naturalistico.

Fonte: Blog’N’Roll – Il Secolo XIX

Uomo preistorico, astronomia nel Paleolitico superiore

November 23, 2017 Leave a comment

L'uomo ha iniziato a osservare le stelle quasi 40 mila anni fa

L’uomo ha iniziato a osservare le stelle quasi 40 mila anni fa

L’uomo preistorico era interessato all’astronomia: le tracce iniziano nel Paleolitico superiore. Il cielo stellato ha svelato ai nostri progenitori le scadenze della natura. Sono state le fasi lunari ad avere rivelato all’uomo il concetto stesso di Tempo, ma su un reperto tedesco dell’Aurignaziano compare Orione

L’uomo preistorico era interessato all’astronomia: le tracce iniziano nel Paleolitico superiore. La più antica traccia di osservazione celeste potrebbe essere rappresentata da una scultura trovata in Liguria, a Vara, San Pietro d’Olba, vicino a Savona: è datata al confine tra il Musteriano, quindi alla fine dell’era neanderthaliana, e l’inizio del dominio Sapiens in Europa. Secondo un’interpretazione la faccia scolpita in questa pietra raffigura una mezza luna. Ma naturalmente non c’è ancora astronomia in questo tipo di opera artistica. I primi reperti che lasciano intendere una vera e propria conoscenza del cielo risalgono all’Aurignaziano. Si tratta di reperti che non sempre mettono d’accordo gli esperti, ma certamente è difficile sostenere che in quell’epoca l’uomo non guardasse con continuità la giostra eterna del cielo stellato, i cui moti hanno svelato ai nostri progenitori le scadenze metronomiche della natura e delle stagioni, quindi i ritmi della caccia e della raccolta. Senza dimenticare l’importanza della stella polare che indica il nord vero, grazie alla quale i primi Sapiens hanno potuto orientarsi e conquistare i continenti. Il manufatto astronomico più antico è stato trovato nella valle di Ach in Germania e risulterebbe essere un’antica rappresentazione di Orione, realizzata in avorio di mammut e datata 32-38 mila anni fa. Le 86 tacche sull’altra faccia del reperto indicano il numero di giorni in cui la stella Betelguese è visibile. Secondo le osservazioni è anche un calendario per le gravidanze. In particolare sono state le fasi lunari ad avere rivelato all’uomo il concetto stesso di Tempo.

La venere francese di Laussel, datata circa 28 mila anni fa, tiene nella mano destra un corno di bisonte che sembra una luna crescente e con la mano sinistra indica il suo ampio addome. Sul corno ci sono 13 tacche, che simboleggiano il numero di lune o il numero di cicli mestruali in un anno. Anche la venere di Lespugue, scolpita in bassorilievo su pietra e dipinta di ocra rossa, scoperta nei Pirenei francesi e datata 27 mila anni fa, evidenzia l’interesse per l’astronomia. Dalle sue natiche partono 10 linee che arrivano alla parte posteriore delle ginocchia, suggerendo i dieci mesi lunari della gestazione. L’osso trovato in Dordogna, nell’Abri Blanchard, risalente a circa 32 mila anni fa, su di un lato presenta 69 incisioni, ovvero un periodo di due mesi lunari e un quarto. Sull’altra faccia si vedono altre tacche per un totale di 172 segni, rappresentanti sei mesi lunari. L’osso trovato nell’Abri Lartet, nella stessa regione, indica alcune serie di 29 o 30 tacche: praticamente i giorni contenuti in una lunazione. Tra le evidenze del Paleolitico superiore vanno ricordati anche l’osso proveniente da Kulna in Cecoslovacchia e quello di Gontzi in Ucraina, sui quali sono evidenti ancora riferimenti lunari: il reperto cecoslovacco presenta tre gruppi di 15, 16 e 15 incisioni che indicano la metà del mese lunare, mentre quello ucraino evidenzia sequenze di tacche che rimandano a un periodo di quattro lunazioni.

Molto probabilmente vanno inserite tra i reperti astronomici anche le ruote “solari” di Sungir in Russia, risalenti a 20-29 mila anni fa. Merita menzionare anche il cavallo rinvenuto sempre a Sungir, che presenta una serie di 50 fori considerati un calendario. Valenza astronomica ha pure il ciottolo della Barma Grande al confine italo-francese, datato a 24 mila anni fa. I computi lunari sono proseguiti sino alla fine del Paleolitico come dimostra il bastone di comando della Grotta Placard antico 12 mila anni. Dall’Europa all’Africa: fra i più famosi reperti astronomici del Paleolitico c’è certamente l’osso d’Ishango, risalente a circa 20 mila anni fa. Si ritiene possa rappresentare i sei mesi di un calendario lunare posto in correlazione con il ciclo mestruale femminile. La luna è stata certamente protagonista delle opere artistiche paleolitiche, ma nelle grotte di Lascaux in Dordogna, dipinte intorno ai 15-20 mila anni fa, è possibile cogliere riferimenti ancora più sofisticati, un vero e proprio tesoro di nozioni astronomiche: i 29 punti scuri tracciati sotto la figura di uno dei cavalli rappresentati sulle rocce sono stati interpretati come un computo dei giorni del mese sinodico lunare, mentre i 13 punti tracciati sotto la figura di un grande cervo sono stati interpretati come i mesi dell’anno lunare. Si segnala anche la figura di un toro, rappresentate l’omonima costellazione, con le Pleiadi segnate nella loro posizione celeste dietro le corna dell’animale. A Lascaux, inoltre, compare per la prima volta un chiaro riferimento solare: l’entrata della grotta infatti è allineata con il solstizio d’estate.
G.G.

Fonte: Preistoria Online

 

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“Disco di Libarna“, svelata la funzione del reperto archeologico

October 11, 2017 Leave a comment

Il disco di Libarna

Svelata la funzione del cosiddetto “Disco di Libarna“, oggetto risalente al I secolo dopo Cristo. Il reperto, unico in Europa e conservato al museo di Archeologia ligure, è uno strumento astronomico. A scoprirne il funzionamento è stato il professor Guido Cossard, esperto di archeo-astronomia: il disco era utilizzato per determinare il nord celeste e calcolare le lunazioni. “Gli antichi da sempre si sono posti il problema delle lunazioni ma anche quello di determinare il nord per poter costruire le citta’ in armonia con il cosmo. Per trovare questa armonia – spiega Cossard – era necessario che l’asse principale della citta’, chiamato cardo, fosse parallelo all’asse dell’universo. Ma come si poteva determinare la direzione corretta? A partire dal sesto secolo avanti Cristo, i cinesi utilizzavano uno strumento, il Pi, che consisteva in un disco forato. I miei studi hanno potuto cosi’ affermare, che il Disco di Libarna poteva essere un vero strumento utilizzato in astronomia, proprio come il Pi cinese“.

Di pochi centimetri di diametro, presenta due facce differenti: la faccia principale ha 13 lunette, l’altra 4 settori circolari che rappresentano le stagioni a cui sono legate tre lunazioni e quattro anni solari che, con il quinto della faccia opposta, rappresentano i cinque anni del calendario di Coligny.

L’oggetto è stato ritrovato durante gli scavi di Libarna, antica citta’ romana, a Serravalle Scrivia (Alessandria).

Verrà presentato al Festival della scienza di Genova il 27 ottobre e il 28 in una conferenza dedicata alla Luna.

 

Fonte: MeteoWeb

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Lemuria, ritrovato il Continente Perduto

February 8, 2017 Leave a comment

lemuria

La scoperta di un antico pezzo di crosta terrestre nella zona dell’isola Mauritius riporta d’attualità le antiche teorie sulle terre sommerse

È stato ritrovato il Continente Perduto di Lemuria. Una specie di Atlantide: solo che sta nel posto di Mu, lo vogliono chiamare Mauritia, ed è un avanzo di Gondwana. È un tema in cui sguazzano fantascienza e fanta-archeologia, ma le antiche terre sommerse esistono davvero. Di una di queste ha parlato Nature Communications raccontando la scoperta di un’equipe di scienziati composta dal geologo Lewis Ashwal della sudafricana università del Witwatersrand, da Michael Wiedenbeck del entro di ricerca tedesco di Geoscienze e da Trond Torsvik, dell’università di Oslo.

La prima parola chiave è ovviamente Mauritia: da Mauritius, nell’Oceano Indiano. Li è stato trovato un antico pezzo di crosta terrestre coperto di lava con cristalli di zircone antichi tre miliardi di anni. Possibile, su un’isola vulcanica non più antica di nove milioni di anni? No: a meno, di non ammettere che quel minerale stava là da prima dell’isola. E siccome si tratta di un qualcosa che non si può formare in mare ma solo su un Continente, vuol dire che si tratta appunto di un avanzo di un Continente scomparso.

Qui arriva la seconda parola chiave: Atlantide. Idea platonica del continente scomparso sotto le onde da quando 2500 anni fa Platone ne raccontò la storia nei dialoghi “Timeo” e “Crizia”. Come indica appunto il nome, però, Atlantide stava nell’Atlantico, tra Europa e America. Da quando nel 1912 Alfred Wegener formulò la teoria della Deriva dei Continenti, però, si sa che l’Europa è stata attaccata al Nord America, e l’Africa al Sud America, come suggerisce anche l’impressionante combaciare delle coste di Golfo di Guinea e Brasile. Per l’Atlantide platonica non c’era dunque fisicamente posto, e infatti negli ultimi decenni chi ha provato a dimostrare la veridicità della sua storia ha cercato collocazioni alternative. Tra le più popolari, la Creta minoica.

La Deriva dei Continenti ha messo in mora anche Lemuria: terza parola chiave. L’esistenza di questo ponte di terra poi sommerso dall’Oceano Indiano era una serissima ipotesi scientifica formulata nel 1864 dal  geologo Philip Sclater per spiegare un qualcosa che all’epoca sarebbe stato se no inesplicabile: come mai l’arco di Asia tra gli attuali Pakistan e Malaysia è pieno di fossili di lemuri quando oggi quelle bestiole vivono solo tra Madagascar e isole vicine? Nel frattempo, però, nel 1920 l’esoterista James Churchward tirò fuori la teoria di Mu (quarta parola chiave). Un po’ identificato con Lemuria, un po’ indicato come un terzo continente perduto nell’attuale Oceano Pacifico.

Teorie fantascientifiche a parte, la geologia ci spiega comunque che 570 milioni di anni fa tutte le attuali terre erano raggruppate in due supercontinenti: Laurasia e Gondwana. Gondwana prende il nome da un’altra “Atlantide” descritta da un mito indù, ma esistette dunque davvero, anche se in epoca precedente a qualunque tipo di umanità. 245 milioni di anni fa si riunì a Laurasia in un supercontinente unico chiamato Pangea, ma a partire da 205 milioni di anni si frammentò di nuovo. Da Gondwana derivano le attuali Sudamerica, Africa, India, Antartide e Australia: ma anche, come si è appunto scoperto ora, la sommersa Mauritia.

Fonte: Il Foglio

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Mauritia, scovato il piccolo continente perduto dell’Oceano Indiano

February 8, 2017 Leave a comment

mauritia

Non c’è oceano di cui si favoleggi almeno un continente inabissato, che sia Atlantide, Lemuria oppure Mu. Tuttavia, solo quello dell’Oceano Indiano è esistito davvero, come afferma un articolo pubblicato sulla rivista “Nature Communications” dai geologi di alcuni istituti di ricerca europei e sudafricani. I ricercatori l’hanno battezzato Mauritia, in omaggio all’isola tropicale che rappresenta buona parte di ciò che oggi ne rimane. Un nome nuovo, per distinguerla appunto dall’immaginaria Lemuria, il continente che secondo alcuni zoologi dell’ottocento avrebbe collegato in tempi remoti India e Madagascar, spiegando la presenza dei lemuri nelle due regioni. E pure dalle numerose leggende come quella del Kumari Kandam, una fertile mesopotamia presente nella cosmologia dei Tamil, oppure della Jambudvipa, il più importante dei continenti della mitologia Indù poiché vi sorge il monte Meru, sede di ogni tipo di godimento.

I primi indizi dell’esistenza di Mauritia risalgono a quattro anni fa quando il gruppo coordinato da Trond Torsvik, professore di Geofisica all’Università di Oslo e coautore del presente studio, trovò sulla spiaggia di Mauritius alcuni piccoli zirconi, tipicamente presenti nei graniti. Nell’articolo pubblicato su “Nature Geoscience” i ricercatori stabilirono che i cristalli si fossero formati durante processi geologici della croste molto più antichi dei basalti dell’isola. Mauritius nasce tra gli otto e i nove milioni di anni fa in seguito all’eruzione di alcuni vulcani sottomarini mentre gli zirconi risalivano a un’epoca compresa tra 660 e 1.970 milioni di anni fa. Il loro ritrovamento era quindi da attribuire all’attività vulcanica che avrebbe portato in superficie alcuni frammenti di una placca continentale sconosciuta e intrappolata sotto gli strati di lava dell’isola. Per quanto plausibile, l’esistenza di Mauritia rimaneva però un’ipotesi: i ricercatori non potevano garantire l’origine locale dei cristalli che avrebbero potuto giungere sulla spiaggia trasportati, per esempio, dal vento. Per fugare ogni dubbio, il gruppo di Lewis Ashwal, professore di Geochimica presso l’Università del Witwatersrand a Johannesburg, ha esaminato la composizione di alcune rocce estratte dalle profondità dell’isola. Il ritrovamento di altri zirconi, di età superiore a quelli trovati da Torsvik, ha rappresentato la prova definitiva dell’esistenza di un piccolo continente perduto. L’analisi degli isotopi di alcuni elementi chimici contenuti ha inoltre escluso la loro provenienza dalle vicine Madagascar, Seychelles e perfino dall’India.

Come Africa, Antartide, Australia e India, Mauritia era in origine parte del grande supercontinente meridionale noto come Gondwana. Circa 84 milioni di anni fa, nell’epoca del Cretacico superiore, India e Madagascar iniziarono ad allontanarsi in direzioni opposte. Trovandosi tra le due, Mauritia subì un progressivo stiramento che assottigliò e sfilacciò la sua crosta, riducendola in numerosi piccoli frammenti presto sommersi dal neonato Oceano Indiano. Secondo gli autori i resti del continente perduto comprenderebbero infatti una serie di isole e isolotti tra i quali l’arcipelago delle Laccadive, le isole Chagos e buona parte delle Mascarene. La presenza in profondità di porzioni di crosta continentale, più spessa di quella oceanica, spiegherebbe inoltre le anomalie gravimetriche misurate in alcune regioni dell’Oceano Indiano. Insomma, nessun cataclisma o punizione divina: Mauritia si inabissò in risposta a dinamiche geologiche naturali, milioni di anni prima che potesse svilupparsi alcuna civiltà umana. I sognatori possono dichiararsi comunque soddisfatti: Atlantide è esistita davvero anche se circondata dalle acque di un altro oceano.

Fonte: National Geographic Italia

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Cavallo di Troia, probabilmente sfatato il mito millenario del quadrupede

June 25, 2016 Leave a comment
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Navi fenicie ‘Hippoi’ (particolare del bassorilievo del palazzo di Khorsabad, antica Dur Sharrukin, la ‘Fortezza di Sargon’, capitale dell’impero assiro al tempo di Sargon II, 722-705 a.C.). (Parigi, Louvre)

Il Cavallo di Troia non era un cavallo di legno, bensì una speciale nave da guerra. L’archeologia navale arriva ora in soccorso dell’interpretazione del celebre episodio narrato da Omero: non il mitico (e improbabile) quadrupede i Troiani avrebbero introdotto dentro le mura della città – in parte abbattendole per farcelo entrare – ma l’Hippos, una nave di tipo fenicio con la polena a testa di cavallo. La sorprendente rivelazione, anticipa l’AdnKronos, arriva dai recenti studi dell’archeologo navale Francesco Tiboni, ricercatore dell’Università di Aix-en-Provence e Marsiglia, che pubblica i risultati della sua indagine sulla rivista “Archeologia Viva” (Giunti editore).

Un equivoco millenario di una traduzione di un termine ha impedito di conoscere in realtà il marchingegno che fu utilizzato per abbattere le mura di Troia, sostiene l’archeologo italiano che insegna in Francia. Tiboni spiega che l’inganno ideato da Ulisse e allestito dagli Achei fu messo in atto per mezzo di “una nave, piuttosto che di un cavallo”, perché l’Hippos va identificato con un vascello e non con un quadrupede.

Ma come e quando la nave è diventata un cavallo? Intorno al VII secolo a. C. è nato l’equivoco, poi ingenerato successivamente anche da Virgilio che ne fu inconsapevole trasmettitore rispetto all’originale di Omero. “Dal punto di vista lessicale, appare evidente che l’apparizione del cavallo risulta legata a un errore di traduzione, un’imprecisione nella scelta del termine corrispondente che, modificando di fatto il contenuto della parola originaria, ha portato alla distorsione di un’intera vicenda”, scrive Francesco Tiboni.

“Se, infatti, esaminiamo i testi omerici, reintroducendo il significato originale di nave – certamente noto ai contemporanei – non solo non si modifica in alcun modo il significato della vicenda, ma l’inganno tende ad acquisire una dimensione meno surreale – spiega Tiboni – E’ di certo più verosimile che un’imbarcazione di grandi dimensioni possa celare al proprio interno dei soldati, e che loro possano uscire calandosi rapidamente da portelli chiaramente visibili sullo scafo e per nulla sospetti agli occhi di chi osserva”.

E appare più plausibile anche ipotizzare che una grande nave, di un tipo noto per essere solitamente utilizzato per pagare tributi, possa essere non solo interpretata come un dono e un segno di resa, ma anche come un eventuale voto divino.

E’ possibile che, nel corso dei secoli, essendo caduto in disuso il termine navale, l’identificazione dell’Hippos con uno scafo “non fosse più automatica”, sottolinea l’archeologo.

“Se consideriamo l’iconografia, notiamo che tra le pochissime figurazioni del cavallo (venticinque in tutta la storia dell’arte antica), le prime si datano al VII secolo a.C., periodo cui risalgono le opere post-omeriche prese a riferimento da Virgilio”. Dunque, è più che possibile che l’equivoco millenario della traduzione dell’Hippos omerico si possa collocare in questo momento – spiega sempre Francesco Tiboni – E che Virgilio, cui si deve la vera grande diffusione del tema nella cultura occidentale, abbia codificato tale passaggio utilizzando il termine latino ‘equus’ (che significa ‘cavallo’), forse a causa della tradizione post-omerica, come farà anche il filosofo bizantino Proclo (412-485 d.C.) nella Crestomazia, riportando testi di Lesche di Mitilene (VIII-VII sec. a.C.) e di Arctino di Mileto (VIII sec. a.C.).

“La sottovalutazione incolpevole – e ante litteram – dell’archeologia navale, intesa come capacità di analisi delle diverse fonti a disposizione degli studiosi finalizzata al riconoscimento e studio dei modelli di imbarcazione antichi, potrebbe quindi aver determinato questo equivoco plurisecolare, che, oggi, proprio l’archeologia navale può finalmente sanare”, conclude Tiboni.

Fonte: Adnkronos

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Nasa, medaglia al merito per l’adolescente William Gadoury

May 11, 2016 Leave a comment

William Gadoury

Adolescente canadese scopre una città Maya usando le costellazioni. La NASA lo premia!

William Gadoury ha solo 15 anni ed è già una “star” della Nasa. Lui è appassionato di civiltà precolombiane e astronomia ed è proprio questa passione che lo ha portato ad una scoperta straordinaria. In una zona impervia della penisola dello Yucatan sorge una delle città più grandi costruite dai Maya, rimasta finora nell’ombra e si chiama “K’AAK’CHI”, “Bouche de feu”, ovvero “bocca di fuoco”.

Il nome gliel’ha dato il suo giovanissimo scopritore, William, un semplice adolescente del Québec che, basandosi unicamente sullo studio delle stelle e sul suo intuito, senza recarsi in Messico, nel 2014 ha ipotizzato la presenza di antichi insediamenti nella penisola dello Yucatan.

Ora i rilievi satellitari dell’Agenzia Spaziale Canadese insieme alla NASA gli hanno dato ragione: una piramide e una trentina di costruzioni dell’epoca dei Maya si levano nel bel mezzo della giungla messicana. Per William è un sogno che si avvera, per l’Agenzia Spaziale una medaglia al merito al piccolo astronomo e la promessa di una pubblicazione della scoperta su una rivista scientifica.

Tutto ha inizio nel 2012: mentre gli altri fanno il conto alla rovescia in attesa che si compia la profezia della fine del mondo, William, che allora ha 11 anni, si appassiona alla cosmologia e alla cultura Maya. “Non riuscivo a capire perché questa civiltà avesse scelto di costruire i propri centri abitati lontano dai fiumi, su terreni poco fertili e tra le montagne – racconta oggi il ragazzo – Pensai che doveva esserci un’altra ragione. Del resto i Maya veneravano le stelle”. Da qui il giovane canadese comincia la sua ricerca. Prende in esame ventidue costellazioni con cui i Maya dividevano il cielo, le riporta su carta e nota una relazione tra la disposizione delle stelle nel firmamento e i luoghi in cui sorgono 117 città. Elabora allora una teoria: piramidi, palazzi e costruzioni si sviluppano seguendo lo schema delle costellazioni. Gli insediamenti riproducono in terra le forme disegnate dalle stelle, di modo che agli astri più luminosi corrispondono le città maggiori.

Ma c’è di più. Secondo il suo schema, alle tre stelle della 23esima costellazione avrebbero dovuto fare da controcanto altrettante città, ma fino a quel momento ne erano state rinvenute solo due. Allora si fa strada l’ipotesi che potrebbe essercene una terza città che ancora non ha visto la luce. È a quel punto che il ragazzo si rivolge all’Agenzia Spaziale Canadese per provare la fondatezza delle sue teorie.

Con l’aiuto di immagini satellitari fornite dalla Nasa e dall’Agenzia giapponese, viene passata al setaccio la zona che, secondo i suoi calcoli, avrebbe dovuto ospitare dei reperti archeologici. Fino a quando, lo scorso gennaio, arriva la bella notizia: la città ipotizzata esiste davvero, e si trova proprio nel punto che aveva indicato William.

La sorpresa, in realtà, è doppia: non solo il 15enne è il solo a essersi reso conto che una città Maya mancava all’appello, ma è stato anche il primo a stabilire e provare una connessione tra le costellazioni Maya e la scelta del luogo di nascita delle città. Il tutto, incrociando informazioni tratte da wikipedia e Google Earth. Una grande soddisfazione, che corona tre anni di lavoro “eccezionale”, lo hanno definito gli esperti. Le spedizioni sul campo non sono ancora in programma, ma per William resta il desiderio più grande: “Andare con gli archeologi nella città perduta, darebbe un senso alla mia ricerca”.

Fonte: Segnali dal cielo

 

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