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“A letto con Tilda”, conversazione intima con Tilda Swinton

April 3, 2021 Leave a comment

Conversazione intima tra un noto drammaturgo a teatrale e la più eterea delle star cinematografiche. Che, tra le lenzuola, parlano di cinema, moda, letteratura e… famiglia queer allargata

Questo articolo è pubblicato sul numero 14 di Vanity Fair in edicola fino al 6 aprile 2021

Per anni ho sognato il mio primo incontro con Tilda, un’attrice che non ha bisogno del cognome. Nelle mie fantasie giovanili, quando avevo scoperto il suo lavoro mentre divoravo Derek Jarman, immaginavo di incontrarla a un party frequentato da persone del mondo delle lettere, dell’arte e della moda, a cui io partecipavo, per caso, come «più uno» di qualche invitato. Oppure, immaginavo di essere ricevuto nella casa di famiglia in Scozia, dove avrei trascorso un weekend d’autunno nel suo giardino – come poi è successo a Nikolai von Bismarck, che ha scattato le foto di questa storia nella sua bellissima magione nelle Highlands scozzesi.

Ma, come tante fantasie, la mia non si è avverata. Il nostro primo rendez-vous è avvenuto via Zoom: io a Notting Hill e lei in Galles, immersa nei preparativi per un film di Joanna Hogg. Nonostante lo schermo, l’incontro è stato sublime, più intimo di quanto potessi immaginare. Tanto che è partito a letto…

Buongiorno, Tilda. Non è incredibile il fatto che entrambi stiamo parlando comodamente dal letto?

«Dovrebbe essere sempre così. Qui in Galles ho un letto un po’ strano, ma la carta da parati è molto bella».

Nemmeno io sono in camera mia, ma in un seminterrato, in casa di amici. È riuscita a lavorare durante tutto il lockdown, vero?

«È stato solo un caso. Pedro Almodóvar e io avevamo pianificato per mesi il nostro piccolo film, The Human Voice, poi tutto si è fermato. Ci siamo guardati e abbiamo detto, “Be’, in realtà si può fare: i protagonisti sono solo una donna e un cane”. È stato emozionante: eravamo arrivati al punto in cui i registi si stavano chiedendo che ne sarebbe stato di loro. Noi abbiamo accettato la sfida».

In generale, questo periodo non dovrebbe essere un momento di pausa, ma di spazio per l’invenzione.

«Concordo. Il bisogno aguzza l’ingegno. È buffo perché mi rendo conto del fatto che chi, come me, è cresciuto in modo non convenzionale sa gestire questo tipo di ostacolo, grazie alla sensazione di potersela cavare con poco ovunque. E c’è una parte di me, come professionista, che trova tutto ciò particolarmente eccitante».

Mi sono sempre chiesto come sia passata dalla Royal Shakespeare Company ai film di Derek Jarman, alla collaborazione con il performer Joan Jonas.

«Sotto molti punti di vista, per me il vero esperimento è stata la partecipazione alla Royal Shakespeare Company. È stata un’ottima opportunità per capire cosa non volevo fare. Mi ero messa a recitare in teatro perché avevo smesso di scrivere ed era un modo di stare con i miei amici che bazzicavano sul palcoscenico».

Come mai ha smesso di scrivere?

«Sono arrivata all’Università di Cambridge per diventare scrittrice, e ho mollato appena entrata. Sono ancora un po’ traumatizzata, mi sa».

Cos’è successo?

«Ero sopraffatta. Qualche anno fa sono tornata a Cambridge per l’inaugurazione della facoltà di Cinema e media: ero invidiosissima, perché quando studiavo io non c’erano corsi del genere. Quando ho incontrato una mia professoressa dell’epoca, le ho detto proprio così, che ero sopraffatta, a bassa voce. E lei ha risposto: “Oh, succede a molti. Ti esaurisci appena entri nel mondo accademico”. Per fortuna ho ritrovato in fretta la mia strada».

Ha recitato in due film, The Souvenir parte uno e due, con sua figlia Honor. Com’è stato?

«È passato un po’ di tempo da allora: mia figlia ora studia Psicologia e Neurologia a Edimburgo. In ogni caso, Honor è stata straordinaria. Si è messa in gioco con una grande apertura, con grazia e senza nessuna intenzione di seguire un percorso specifico. Mi sembra un dono fantastico poter condividere qualcosa di speciale con chi ami profondamente. Uno dei miei obiettivi è fare un film con più membri della mia famiglia. È una cosa meravigliosa, non vedo l’ora di realizzarla. Ogni tanto penso a come dev’essere per i miei figli. Sono circondati dall’arte. La nostra casa è piena delle opere del padre (il pittore e commediografo scozzese John Byrne, ndr) e del mio attuale compagno (l’artista tedesco Sandro Kopp, ndr); guardano film diretti da amici di famiglia; leggono libri scritti dai loro padrini. Mi sembra il lusso più incredibile che si possa immaginare. Io, invece, sono cresciuta in un ambiente in cui mi sentivo come quei bambini che vengono scambiati nella culla».

Ha provato nostalgia durante i vari lockdown?

«La mia primissima reazione è stata tornare ai primi amori: Michael Powell ed Emeric Pressburger, Hitchcock, Carole Lombard. Questo periodo è una sfida all’immaginazione e alla fantasia, che poi sono quello che facciamo al cinema. Ovunque si sono levati cupi presagi sul futuro nero del grande schermo, ma non sono mai stata d’accordo. Come direbbe Slavoj Žižek, abbiamo bisogno del cinema per conoscere i nostri desideri. Penso che la pandemia ci abbia fatto rendere conto ancora di più dell’importanza del cinema e della musica. Certo, siamo grati ai servizi di streaming, ma ci sono corde che non toccano. Mi spiace anche per chi, come lei, lavora in teatro».

Già. Sono preoccupato per i miei coetanei e per le persone più giovani di me che non hanno ancora avuto la possibilità di mostrare il loro talento, e forse non ce l’avranno per molto tempo.

«Sono d’accordo ma, allo stesso tempo, non solo perché sono una spudorata ottimista, ma perché credo nell’intelligenza, penso che i giovanissimi capiranno come fare. Sono altri che hanno bisogno di compassione e sostegno: quelli un po’ più grandicelli, che avevano già cominciato a scaldare i motori».

Tornando all’invenzione, cosa pensa della moda?

«Sono davvero grata di aver conosciuto, proprio all’inizio della mia carriera, una serie di persone geniali che lavoravano nella moda. Sono diventate amiche e poi abbiamo iniziato a collaborare. Per me sono importanti come i registi, gli scrittori o gli artisti con cui ho lavorato».

Chi erano queste persone?

«Avevo un rapporto meraviglioso con Karl Lagerfeld, che all’inizio non mi spiegavo visto che io assomigliavo a un gamberetto e lui lavorava nell’impero del bello. Detto questo, è grazie a lui che sono entrata in contatto con Chanel, che continua a essere una grande fonte di ispirazione. Da quando Karl se ne è andato, mi pare che la maison abbia sviluppato uno stile più lirico e aggraziato. La sensibilità di Virginie Viard rende i capi flessibili, adatti al movimento del corpo. L’apertura e la fluidità, che caratterizzano gran parte delle odierne interazioni sociali, si riflettono ovunque, inclusa la moda. È una folata di aria fresca, e sono convinta che sia Karl Lagerfeld sia Coco Chanel – entrambi grandi fautori della modernità – la accoglierebbero calorosamente».

Il capo Chanel che preferisce?

«Stiamo girando nel gelo invernale del Galles rurale e, ogni mattina, quando mi butto giù dal letto, penso a quanto sono fortunata ad avere tre capi Chanel di cui ormai non posso fare a meno: una tuta da lavoro in denim spesso, grigio scuro, che infilo sopra i vestiti o il pigiama; una maglia da marinaio dalla collezione Hamburg e un paio di stivali da neve alla caviglia blue navy. Oggetti eterni. È questa la gloria di Chanel: la capacità di durare e la praticità, a prescindere da quanto siano stravaganti o raffinati».

Altri stilisti che la ispirano?

«Iris van Herpen. E, ovviamente, Haider Ackermann. È come un fratello per me, nonché un collaboratore prezioso. Lavoriamo insieme da vent’anni».

Come ha festeggiato i sessant’anni?

«Non mi sarei mai immaginata un compleanno così, perché cadeva il primo giorno di riprese del mio nuovo film con Joanna Hogg, che è la mia più vecchia amica: non nel senso che lei è vecchia, ma nel senso che ci conosciamo da quando avevamo dieci anni. Ho come sentito il rintocco di una campana. Un magnifico suono che segnava l’inizio delle riprese il giorno del mio compleanno».

Sono poche le persone che riescono a fare carriera lavorando principalmente con artisti queer, eppure lei ci è riuscita. È stato voluto?

«Be’, ho incontrato Derek Jarman quando avevo 24 anni. Ero appena uscita dall’università e stavo per capire che non volevo diventare una performer. Ho lavorato nel teatro sperimentale, al Traverse e all’Almeida, di cui ho ricordi molto belli. Ma sono tagliata fuori adesso – un po’ come Rip van Winkle del racconto di Irving – perché vado molto raramente a Londra. Quando sono nati i miei figli, mi sono trasferita nelle Highlands, quindi vivo isolata dal mondo. So che l’Almeida è stato trasformato in un posto funzionale, all’avanguardia, ma c’era la segatura sul pavimento quando ci lavoravo io negli anni ’80 e nei primi anni ’90. Per me, però, era un luogo fantastico».

Che mi dice del cinema?

«Era prima del cinema indipendente con la I maiuscola. C’erano David Lean e Merchant Ivory, oppure il British Film Institute, ed è lì che ho trovato la mia tribù. Derek Jarman, Peter Greenaway, Sally Potter, Peter Wollen. Essere queer, per me, ha a che fare con la sensibilità. Ho sempre sentito di esserlo io stessa: stavo solo cercando il mio “circo”, e l’ho trovato. È il mio mondo. Ora ho una famiglia con i registi Wes Anderson, Bong Joon-ho, Jim Jarmusch, Luca Guadagnino, Lynne Ramsay, Joanna Hogg».

Il suo prossimo film, The French Dispatch di Wes Anderson, uscirà più avanti quest’anno. Anticipazioni?

«Interpreto J.K.L. Berensen, la corrispondente del giornale che dà il titolo al film. Ho avuto il grande onore di lavorare con Wes e la sua allegra banda diverse volte e, come sempre, è stato un vortice di piacere, talento e genio mozzafiato. Una vecchia fabbrica di feltro riempita con una miriade di set e i loro mondi, dagli abbaini ai campi di grano, dagli aerei divisi in due ai salotti, ai vernissage eleganti. Ogni giorno ci davamo un pizzicotto per capire se fosse tutto vero. Come Wes abbia immaginato, e ottenuto, ogni dettaglio di questa visione sarà sempre un mistero per noi. È un forziere pieno di tesori meravigliosi. E non vediamo l’ora di presentarlo al mondo».

Alcuni artisti emergenti che le piacciono particolarmente?

«Conosce un comico che si chiama Julio Torres?».

Adoro Julio, è un grande amico.

«È come una finestra su un mondo. Amo anche lo stilista Charles Jeffrey, e c’è un’artista francese molto interessante che si chiama Jeanne Vicerial. È straordinaria. In realtà, ho fatto un elenco perché immaginavo che mi avrebbe fatto una domanda sui giovani talenti. Poi, però, mi sono resa conto che alcuni di loro non sono proprio così giovani».

Non occorre che siano giovani anagraficamente.

«C’è un pittore interessante che si chiama Salman Toor. Mi imbarazza aver messo nel mio elenco Lizzo e Lady Leshurr, perché tutti li conoscono, ma forse li ho citati perché li ho conosciuti all’inizio della loro carriera. E c’è un meraviglioso regista indonesiano, chiamato Edwin – solo Edwin – che vale la pena cercare. Magari, se citiamo i loro nomi sulle pagine di questo giornale, qualche lettore potrebbe googlarli e scoprirli».

Lei si cerca mai su Google? Sono curioso di sapere se è consapevole di tutti i meme in cui compare. È diventata un riferimento costante su Twitter e Instagram.

«No, no, no, no, sono una luddista assoluta. Non sono presente su nessun social media, non lo sono mai stata. Ma sono felice che la gente si diverta con queste cose».

Non posso credere che lei riesca a vivere completamente senza social.

«Ho altre cose da fare. So che cosa sta succedendo. È come se ci fosse una foresta in fiamme da qualche parte in fondo al giardino, e io mi concentrassi sulle mie rose».

Pensa che, un giorno, la scrittura che fa con il corpo si trasformerà di nuovo in scrittura sulla pagina?

«È buffo perché mi è stato chiesto di tenere il discorso in memoria di Derek Jarman al Festival Internazionale del Cinema di Edimburgo del 2002. Volevo dire di no, che non sapevo scrivere, ma poi mi sono seduta e il ghiaccio si è sciolto. E, da allora, ho scritto saggi abbastanza regolarmente. Abbiamo una tartaruga a casa ed è come il mio avatar da scrittrice: se le metti davanti una foglia di lattuga, la sua piccola testa fa capolino. Allo stesso modo la mia testa si sta avvicinando lentamente a una sceneggiatura, ma senza sforzi. Piano piano».

Ho un’ultima domanda per lei.

«Prego».

In tutte le sue avventure ha saputo mantenere uno spirito indipendente senza scendere a compromessi. Nella moda, nel cinema, nelle scelte che fa, che cosa la tiene sempre sulla retta via?

«Non ho mai avuto alcuna ambizione come artista. Può sembrare assurdo e trasgressivo, ma è un dato di fatto. Se me l’avesse chiesto quando avevo 10 o 20 anni, avrei detto che le mie uniche ambizioni erano avere una famiglia, amici che mi fanno ridere e che ridono alle mie battute, vivere nelle Highlands scozzesi, vicino al mare, con un sacco di cani e un orto. Giuro. Riuscire a realizzare i miei sogni è stata una benedizione. Tutto il resto è un di più. È zucchero a velo, fiori e candele».

di JEREMY O. HARRIS / Foto NIKOLAI VON BISMARCK servizio di JERRY STAFFORD

Fonte: Vanity Fair

“Cerco sempre una deriva”, intervista di Elisa Fuksas

January 19, 2020 Leave a comment

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La regista del nuovo film Netflix The App, “Sono curiosa, ma anche molto essenziale; ho il terrore di rimanere nel punto in cui sono nata, cerco sempre una deriva, un qualcosa che mi porti altrove, indietro o avanti che sia…”.

“Possiamo innamorarci di un’idea e per questa andare fino in fondo, senza sapere a cosa porterà? È possibile dimenticare il mondo, la vita, la realtà, per un sogno d’amore? È possibile perdere tutto per trovare se stessi?”. Parte da queste domande la giovane regista Elisa Fuksas con il suo nuovo film, The App, in arrivo su Netflix dal 26 dicembre prossimo con Nick (Vincenzo Crea) – il rampollo di una famiglia ricca che vuole fare l’attore – ed Eva (Jessica Cressy) – un tipo pragmatico, una borghese risoluta – divisi tra Los Angeles e Roma in un’estate torrida. C’è poi Maria (Maya Sansa) che è una voce che non può non farci ricordare quella di Her – il film di Spike Jonze con Scarlett Johansson – ma qui non è un algoritmo, perché esiste davvero. Intimità è la parola che viene in mente guardando questo film, la stessa che ci viene mostrata in tutti i modi, violata, condivisa, compresa o semplicemente negata in ogni scena e se questo accade, il merito va tutto alla Fuksas che è riuscita a scrivere (assieme a Lucio Pellegrini) e poi a dirigere un film che è una sorta di rilettura 2.0 del mito di Narciso. C’è un ragazzo ricco, c’è una donna – pardon, due – e un cellulare. In mezzo, un Oceano di sentimenti, lontananze, incomprensioni, non detti, silenzi e parole, tante, tantissime parole, pronunciate a voce o scritte in un messaggio. Lui è innamorato di se stesso e non riesce a vedere il volto dell’altro, figuriamoci quello del mondo, e al posto del lago per guardarsi dentro si specchia in un’altra immagine liquida che è lo schermo del cellulare scatenando un triangolo erotico-sentimentale.

“Tutto ha avuto inizio da un libretto d’opera di cui volevo farne la regia in scena lo scorso settembre al Maggio Fiorentino”, ci spiega Elisa Fuksas quando la incontriamo in un hotel romano. Ha un fascino antico evidenziato dal suo look e quando ti parla soppesa ogni parola guardandoti sempre negli occhi. La voce, magnetica e calda, non sorpassa mai i toni e dà alla conversazione una stabilità inattesa. “Sono stata a Firenze per diversi mesi e a un certo punto hanno ceduto dicendomi che avremmo potuto lavorare insieme, ma che avrei dovuto scrivere quel libretto, un dittico di Pagliacci. Unico vincolo, il tema: il tradimento. Sul treno verso Roma, mi tornò in mente un vecchio articolo che avevo letto su un sito di incontri dedicato alle coppie sposate, dove tutti condividevano lo stesso segreto: l’essere marito e moglie e il potersi divertire lo stesso. Il sito venne hackerato e vennero resi pubblici i volti di gente anche nota, attori, politici. Ci furono cinque suicidi, tra cui un prete che si era innamorato di una donna. Soltanto dopo la sua morte si è scoperto che lei non esisteva, perché tutto era virtuale. Praticamente lui si era ucciso per niente”.

Trentotto anni, figlia della coppia di archistar Massimiliano e Doriana Fuksas, Elisa ha scritto e diretto video musicali, spot, documentari (L’Italia del nostro scontento) e cortometraggi (Please leave a message, Nastro d’argento 2007), un film (Nina, 2012) e scritto un romanzo, La figlia di (Rizzoli, 2014), giocando sin dal titolo sulla sua condizione. “La grande lotteria dell’universo mi ha fatto nascere in quella famiglia che è il vero privilegio, sono loro la vera ricchezza”, ci spiega. “È molto difficile avere dei genitori così, questo è indiscutibile, ma è anche una fortuna immensa”. La ricchezza non credo sia un privilegio. Si pensi a questo mio film dove il vero privilegio sta nella giovinezza del protagonista che ha ancora tutto di fronte, ha il tempo”. “La ricchezza – precisa – è uno strumento e, purtroppo è brutto da dire, è meglio. Credo che tutti noi preferiamo stare bene piuttosto che stare scomodi. È il libero arbitrio: dipende da come usi le cose. Se le usi per costruire, diventano positive, se le usi per il contrario diventano armi pericolosissime”.

Ai due archistar – che ha già omaggiato col suo documentario La nuvola. Work in progress – dedica una delle scene più particolari del film, ambientandola proprio in quell’edificio speciale costruito all’Eur. “Purtroppo – ci dice Elisa col sorriso – non ce n’è un’altra di nuvola a Roma, dovevo per forza usare quella per avere uno spazio così particolare. È uno spazio quasi metafisico, decisamente unico”. In The App, un film che ha il profumo degli umori e delle sensazioni più varie, c’è la tecnologia e c’è il sentimento, ma anche la tecnologia al servizio del sentimento. È un mondo di solitudini che entra in connessione attraverso la rete e in uno spazio diverso in cui ci si conosce, ci si corteggia, ci si innamora come se quella stessa app fosse un luogo di incontro con tutti i rischi che la cosa può comportare. “Non ho paura di una app, ma non la saprei gestire perché ne sarei dipendente”, precisa. “Sono curiosa, ma anche molto essenziale; ho il terrore di rimanere nel punto in cui sono nata, cerco sempre una deriva, un qualcosa che mi porti altrove, indietro o avanti che sia, ma per me è fondamentale”. Non è un caso, aggiunge poco dopo, che abbia deciso di fare un passo importante. “Mi sono battezzata a Pasqua dopo due anni di un percorso religioso che mi è servito per conoscere un’altra realtà. Avevo bisogno di un dirottamento. Spesso faccio queste incursioni altrove che mi servono per cambiare le carte”. Nel film – prodotto da Indiana Production – ci sono anche Greta Scarano, nel ruolo della cameriera d’hotel, e Abel Ferrara, “un regista che fa il regista”, “un uomo con il quale sul set è molto semplice lavorarci, perché diventa un bambino di sei anni”, ricorda Elisa. “Per tutto il tempo pensavo che lui aveva fatto Il cattivo tenente, ma in quel momento ero io che gli dovevo dire le battute. Voleva sentirmi dire le cose”. Ultima protagonista, ma non ultima, Roma con tutta la sua bellezza. È la città in cui sono nata, la amo e la odio, ci dice prima di salutarci. “Vorrei andare via ogni giorno, ma ogni volta, quando vado via, non ci riesco. Amo il Circo Massimo e la Chiesa Sant’Anastasia aperta giorno e notte, un posto magico dove si fa l’adorazione perpetua. Amo la luce di Roma che è quello che ti strega e che ti costringe a lei. Ho vissuto a New York, a Parigi, a Londra, ma poi sono qui perché la amo, eppure… Con il suo traffico, la spazzatura e i mille disagi, la odio. Ma non riesco più ad andare via”.

Fonte: MarieClaire

Intervista di Viviana Musumeci a Federico Brugia

September 8, 2012 Leave a comment

In questi giorni, il suo primo lungometraggio “Tutti i rumori del mare” è nelle più importanti sale italiane. Opera prima, sognata, desiderata e realizzata, il film tratta del viaggio dei protagonisti all’interno delle loro anime. Un film, che qualcuno ha definito un thriller psicologico, dove i protagonisti sono Sebastiano Filocamo, Orsi Toht e Benn Northover, ma che vanta i camei di Rocco Siffredi e Malika Ayane – moglie, anche del regista -. Ma Brugia, è noto tra i fan della pubblicità per essere anche un regista raffinato di spot con una sua poetica e un codice visivo molto riconoscibile. Tra l’altro, il regista ha avuto modo di lavorare anche nel mondo della moda.

V.M.: Che cos’è il talento?

F.B.: Io penso che ogni linguaggio artistico abbia un suo “specifico”: quell’elemento che rende l’unicità di una data forma di comunicazione rispetto alle altre. Per chi, come me, lavora sulla comunicazione visiva, il talento è proprio quello di far “parlare” le immagini stesse. Comunicare, raccontare, creare o descrivere atmosfera proprio attraverso le immagini, nella forma più pura…. Una volta si diceva che il cinema muto è in qualche modo “più cinema” di quello sonoro, proprio perché e costretto alla purezza del racconto per sole immagini… Oggi, forse proprio in opposizione all’inflazione visiva da cui siamo circondati, mi sembra di percepire un ritorno alla ricerca di quel “senso” da cui le immagini sembravano essersi svuotate… l’attenzione per un film come “the artist” mi sembra possa avvalorare questa sensazione.

V.M.: I nuovi mezzi di comunicazione possono influire beneficamente sulle discipline artistiche e creative?

F.B.: La digitalizzazione ormai diffusa, sia nella produzione che nella diffusione (per quanto disordinata) di contenuti “creativi”, ha prodotto una sorta di benefica democrazia delle arti.Tuttavia, penso che le cose che funzionano siano sempre legate a contenuti forti. Per quello che riguarda il mio ambito, che è poi quello di chi “mette in scena” qualche cosa, io penso che le cose non siano cambiate più di tanto. Già negli anni ’60 si era verificato -pur secondo modalità differenti- Il fatto di poter accedere più facilmente a un mezzo.

V.M.: Qual è il legame che hai con il mondo della moda?

F.B.: Amo la moda e devo alla moda gli inizi della mia carriera. Erano i tempi in cui mi recavo da molti degli stilisti allora emergenti e mi proponevo di produrre video bizzarri, montaggi un po’ strampalati che mischiavano back-stage di sfilate, animazioni, e altre cose che andavo a pescare in giro per il mondo con la mia piccola cinepresa super8. Tutt’oggi penso che la moda sia un enorme contenitore di esperienze visive e riferimenti da cui trarre spunto. Ed è trasversale a tutto quanto ci circonda… Architettura, design, abbigliamento, cinema, musica, video…

V.M.: Designer preferito?

F.B.: Ho avuto una passione spropositata per McQueen e per Dior, nel periodo in cui Hedi Slimane ne seguiva la direzione artistica. Poi mi ritrovo molto anche nello stile e nelle scelte estetiche di Martin Margela e Ann Demeulemeester.

V.M.: Come vivi il tuo lavoro?

F.B.: E’ estremamente gratificante. Un po’ come dicevo a proposito della “trasversalità” della moda, penso che ci siano delle energie che ogni artista poi incanala nella forma che gli è più consona (cinema, musica, etc) ma che in principio sono comuni… appartengono al modo di percepire la vita e il mondo che ti circonda.Detto ciò, quando ci si sveglia al mattino, il problema è comunque “a chi tocca preparare la colazione?…”

(Intervista di Viviana Musumeci)

Intervista a Frédéric Beigbeder, regista di “L’amore dura tre anni”

July 23, 2012 Leave a comment

Perché ha scelto di adattare uno dei suoi romanzi per il suo primo lungometraggio?

Per essere tranquillo. Mi sono detto che se avessi preso una storia personale, un romanzo autobiografico, avrei potuto tradirlo come volevo! Inoltre mi avrebbe permesso di inserire il mio primo film in un genere preciso (la commedia romantica). Quando fai il tuo primo film, devi, prima di tutto, vincere la paura del ridicolo. Tarantino ha scelto il genere poliziesco con Le Iene. Altri preferiscono il fantastico e la fantascienza. Io ho scelto la «rom-com» che offre una struttura molto pratica, che non ti obbliga a reinventare la narrazione, fin dai tempi dei Fratelli Lumière. Come in tutte le commedie che amo, anche questa inizia con un personaggio che è terribilmente disincantato nei confronti della vita. E proprio quando non crede più nell’amore, incontra una donna che riaccende in lui il gusto per la vita. Dopo l’incontro, l’iter è sempre lo stesso: il litigio, la separazione e poi il ritrovarsi. E’ una cornice questa, all’interno della quale c’è anche ampio spazio per il divertimento.

Come mai, di tutti i suoi libri, ha scelto proprio L’amore dura tre anni, che non era il più facile da adattare?

E’ vero che non sono poi molte le cose che succedono nel libro. L’ho scritto in un periodo di malinconia e di pessimismo, dopo il mio divorzio. Sulla copertina c’è scritto ‘romanzo’, ma in realtà si tratta di un diario intimo, che contiene dei piccoli aforismi. Dopo l’adattamento di 99 francs, per mano di Jan Kounen, che giocava sul lato cinico, provocatorio e trash, l’idea era quella di mostrare un altro aspetto del mio lavoro. Una vena più calma, più intima e più sincera, che ritroviamo in Windows of the WorldUn roman français, e in alcune parti di L’égoïste romantique.

È stato facile convincere i produttori?

L’idea di adattare questo romanzo non viene da me. Cinque anni fa, un primo produttore prese l’opzione sul libro ma io non fui coinvolto nel progetto. Per la sceneggiatura, avevo raccomandato Christophe Turpin, che mi aveva colpito molto con la sceneggiatura di Jean-Philippe.
In seguito, vi risparmio tutte le peripezie, il produttore ha abbandonato il progetto. Poi, Michael Gentile e Alain Kruger hanno ripreso i diritti del film, mi hanno detto che avrei dovuto non solo scriverlo ma anche dirigerlo. Sono arrivati un giorno a casa mia con una sedia da regista con scritto sopra il mio nome! Io gli ho risposto di no, che amavo troppo il cinema per farlo, e che non mi sentivo all’altezza. Ma poi l’idea si è fatta strada dentro alla mia testa di megalomane, ci sono voluti cinque anni perché l’idea maturasse. Poi Christophe Turpin e Gilles Verdiani hanno brillantemente lavorato sulla sceneggiatura, ed io ci ho rimesso un po’ di me stesso, introducendo la mise en abîme (la storia nella storia) del libro L’amore dura tre anni. Trovavo divertente che fosse il libro a provocare il litigio tra gli innamorati e che fosse anche un film sulla scrittura e sul mestiere di scrittore. Questo mi permetteva di fare il ritratto di un critico letterario, della sua casa editrice machiavellica, di mostrare il premio letterario ‘Prix de Flore’, tutte cose che fanno parte della mia vita e delle quali, stranamente, non ho mai parlato nei miei libri.

Quindi ha adattato il suo libro introducendo più cose di se stesso?

Adattare un romanzo di cui si è gli autori non è così frequente, e io l’ho vista come un’occasione per riattualizzare questa storia. Ho scelto di non essere fedele al mio libro, anzi di correggerlo e di svilupparlo. In questo passaggio si poneva anche la questione: sono cambiato dall’uscita del libro, che risale a quindici anni fa? Ebbene no, non sono mai riuscito a superare la fatidica mannaia dei tre anni. O forse giusto un po’. È una maledizione. Anche se il mio scopo è di non essere fedele a questo titolo, bisogna constatare che gli ho sempre
obbedito… E se il film offre alle persone l’occasione di discutere sulla questione, allora sarò contento!

Come ha diretto i suoi attori?

Abbiamo fatto molte prove e letture. A casa mia a Parigi, a Guéthary dove abbiamo iniziato con Louise (Bourgoin), Gaspard (Proust) e Yves (Cape, il capo operatore). Prima delle riprese, ho lavorato molto con tutti gli attori. Assieme a loro ho corretto i dialoghi. Il che durante le riprese non ci ha impedito di riscrivere i dialoghi e di fare delle scelte diverse, quando sul set ci rendevamo conto che quello che avevamo preparato non funzionava più.

Nel corso della preparazione arriva a fare anche degli storyboard?

Sì, ho fatto fare uno storyboard, che non è servito a nulla se non a rassicurarmi. Questo era l’unico metodo che conoscevo dall’epoca in cui scrivevo film pubblicitari. Ad ogni modo, quando ho iniziato a pensare alla sceneggiatura del mio film, avevo in testa la mia esperienza nel campo pubblicitario e mi sono ritrovato nella stessa situazione: su un set, tra cinquanta persone la cui missione era di tradurre sullo schermo quello che io avevo nella testa. La grande differenza con la pubblicità è la libertà. Uno spot per degli yogurt deve essere esattamente, inquadratura dopo inquadratura, come era scritto sulla sceneggiatura. In questo caso, sul set, ho lasciato che gli attori mi sorprendessero: più «incidenti» c’erano, più ero contento.

E ce ne sono stati molti di questi «incidenti»?

Non s’ingaggia JoeyStarr per fargli recitare il suo testo! Gli ho lasciato un margine di libertà ed è proprio in questo che è il migliore. Lo stesso vale anche per Gaspard e Louise a cui ho lasciato libertà di improvvisazione, partendo da una traccia precisa. Giravamo con due macchine da presa contemporaneamente per non perdere niente delle loro reazioni. Questa è una cosa che proviene dalla televisione, un’altra parte della mia vita. Quando presento Le Cercle, ci sono sei telecamere; il lavoro della televisione è quello di captare i talenti, le asperità, i momenti di riso o di verità. E quando uno dice una barzelletta e l’altro ride, è importante riuscire a catturare entrambe le cose: l’azione e la reazione. Ed io ho fatto lo stesso. Quanto più spesso possibile, avevano i loro dialoghi ma dicevo loro che, se volevano, potevano allontanarsi dal testo. E così, durante l’incontro a Guéthary e nella scena dell’hotel Amour, ci sono dei momenti d’improvvisazione.

Ha girato in digitale?

Sì, con la famosa Canon 5D, per i titoli di testa e per certe scene di notte, e il resto del film con la Alexa, una piccola camera che fa dei prodigi. E’ stato parlando con Maïwenn e  che ho scoperto quanto fosse preferibile girare in digitale, anche con due o tre macchine contemporaneamente. Io sono molto critico nei confronti dei libri digitali ma non dell’immagine digitale! Una tale leggerezza, ve lo immaginate? Sarebbe stato un sogno per un cineasta come John Cassavetes, che aveva così tante difficoltà per trovare dei finanziamenti. Un lusso supremo: per le riprese di sera, era sufficiente attaccare una chiave USB sul mio computer per poter visionare le riprese giornaliere nel mio letto. Ma ovviamente, la tecnica non è tutto. Ho avuto la fortuna di poter contare su una squadra di talenti che non si spaventavano mai quando c’erano da fare gli straordinari. E so che devo molto a Emilie Cherpitel, la mia prima assistente, che prima di lavorare con me ha collaborato con cineasti come Wes Anderson e Sofia Coppola, solo per citarne alcuni.

Perché ha voluto lavorare assieme a Yves Cape, il direttore della fotografia di Bruno Dumont ?

Perché trovavo molto bella la sua luce e anche perché da Dumont è stato abituato a lavorare con degli attori non professionisti, perciò sa come catturare l’imprevisto. Era quindi pronto a prendere dei rischi e a ricevere tutto quello che i miei attori potevano proporre, al di là di quello che era scritto nella sceneggiatura. Non mi sono sbagliato, è stato incredibilmente paziente e creativo.
Un mese prima dell’inizio delle riprese, ha avuto la gentilezza di liberarsi per venire a preparare le riprese assieme a me. Questa cosa ci ha fatto guadagnare del tempo prezioso e mi ha liberato dall’angoscia. Bisognava vedere a che velocità si attivava sul set, assieme alla sua squadra di belgi. Si è divertito a fare cose che in genere non fa. Io gli ho parlato di Blake Edwards e di Alta Fedeltà di Stephen Frears…. Gli è piaciuto molto anche il fatto di ritrovarsi in un film tratto da un libro, e di essere in una commedia. E soprattutto lo eccitava il fatto che fosse elegante. E’ quello che gli ho detto quando l’ho contattato: non vedo perché gli attori francesi non debbano essere glamour. Io adoro Hollywood PartyColazione da Tiffany
o la serie Mad Men. E ho una nostalgia di quel tipo di cinema, che non esiste in Francia. Penso aFaisons un rêve di Sacha Guitry, ad esempio: la scena d’apertura è ambientata in un appartamento borghese, le battute di spirito si susseguono, Arletty indossa un vestito da sera, Michel Simon uno smoking… Questa tradizione del cinema chic mi ha sempre fatto sognare.

Si ha l’impressione che abbia fatto in modo che l’emozione riesca costantemente a controbilanciare il riso e che, inversamente, una gag smorzi sempre le situazioni più romantiche.

Parlare d’amore senza cadere né nel sentimentalismo sdolcinato, né nel cinismo misogino o nella volgarità spinta, è davvero complicato! Il film deve parlare anche di sesso, ovviamente, e deve essere divertente, ma deve pur sempre rimanere bello e l’immagine non deve mai distruggere il mistero e il sogno.

È per questo che lei moltiplica le idee visive: i coniglietti, le varie Louise o le vignette sui titoli di coda?

Tra parentesi, sfortunatamente, ho dovuto fare parecchi tagli, che ritroverete negli extra del DVD… Come, per esempio, una scena con delle ragazze che diventano belle sotto l’effetto dell’alcool, resa possibile grazie all’uso del morphing e a tutto quello che oggigiorno la tecnologia permette di fare: non ci sono limiti. Quando riuscivo a trovare degli espedienti che utilizzassero l’immagine sarebbe stato assurdo privarsene.
Per esempio, ci tenevo molto che ci fosse una scena di strip-tease romantico nel mio film. Trovo poetica l’idea di un uomo che è appena stato lasciato dalla sua amichetta e
per dimenticarla va in un club di strip-tease, dove, come per magia, tutte le ballerine, le cameriere e le hostess hanno il viso e il corpo della ragazza che lo ha lasciato. Per Louise non è stata una scena facile da girare; ha dovuto imparare la «pole dance» per l’occasione! La scena è stata possibile grazie agli effetti speciali.

Così lei offre ciò che sarebbe impossibile nella vita reale?

Sì. Il cinema permette ogni libertà, è come un giocattolo straordinario che mi è stato offerto. E’ come se mi avessero proposto di scrivere un romanzo in giapponese! Certi autori che ammiro hanno cambiato lingua. Nabokov era russo e ha scritto in americano. Kundera ha lasciato la lingua cecoslovacca per scrivere in francese. Io non ho mai scritto in una lingua straniera, ma ho potuto sperimentare un nuovo linguaggio dalle possibilità illimitate! Girare un film non è né più facile né più difficile che scrivere dei libri, è differente. Mi sono sentito come un vampiro che succhia il talento dei suoi collaboratori! Non è così male…
Amo il termine inglese director, molto più della parola cineasta. ‘Direttore’ di una piccola banda di pazzi geniali il cui obbiettivo è raccontare una storia.

E questa storia, l’ha riscritta molto durante il montaggio?

Grazie al digitale, in fase di montaggio, abbiamo potuto fare una serie di prove e cambiamenti in pochi secondi. Stan Collet, il montatore del film, faceva continuamente delle proposte ed era sempre pronto a tentare montaggi alternativi. Ma non si può dire che il mio film sia stato riscritto durante il montaggio. Ho semplicemente seguito il consiglio di Maurice Pialat, che diceva che «per fare un buon film, bisogna tagliare ciò che è brutto». Durante il montaggio, può capitare che ci si renda conto che quello che abbiamo scritto non si traduce bene sullo schermo e a quel punto bisogna avere l’umiltà di cambiare, si deve ammettere, anche quando abbiamo incollato assieme tutte le sequenze, che alcune di esse non stanno in piedi. Ci sono delle scene intere che mi piacevano molto – e non solo a me – che sono sparite. È molto triste, ma bisogna accettarlo.

Oggi, come percepisce l’esperienza di questo primo film?

È stato spaventoso e piacevole allo stesso tempo. Mi sono state date le chiavi del potere per una volta nella mia vita, e poiché non so se ci sarà una seconda volta, ci ho messo tutto: il mio amore per la Settima Arte, quello che ho visto nei diversi ambienti che ho frequentato, il massimo della sincerità e dell’emozione; ho voluto approfittarne il più possibile.

È dunque per la sua passione per Michel Legrand che ha deciso di farne il filo rosso del suo racconto?

Riguardo a Michel Legrand non c’è una parola nel romanzo, ma sono sempre stato un suo grande fan. Quando Marc Marronnier racconta che piange ogni volta che rivede Peau d’âne, è autobiografico. Fare intervenire Michel Legrand con la sua musica è stata una delle prime idee della sceneggiatura. Lo avevo incontrato tre o quattro anni fa, per parlargliene, e allora mi aveva risposto «perché no?». Gli era piaciuto il libro, e quindi ho perseverato … Mentre scrivevo la sceneggiatura l’idea si è sviluppata. Secondo me era splendido che la sua musica fosse presente durante l’incontro, che si evocasse la sua figura tutto il tempo, prima che egli stesso apparisse in carne ed ossa alla fine del film; anche se questa, ovviamente, è una sorpresa da non rivelare al pubblico. E in effetti, credo che nella vita spesso ci innamoriamo grazie a delle canzoni, specialmente grazie a quelle di Michel Legrand.

L’utilizzo della musica di Michel Legrand, così come la gag del guanto di plastica, opera sul concetto di parità. C’è due volte un estratto da Il Caso Thomas Crown, e due volte la registrazione di Les Parapluies de Cherbourg, con Nana Mouskouri. Era pianificato?

È l’idea di giocare con il ricordo. Lo spettatore vede qualcosa in un momento del film, poi la storia continua e si passa ad altro, ma se gli viene mostrata nuovamente la stessa cosa, essa agisce sulla sua memoria. Come accade con le reminiscenze proustiane, troviamo questa tecnica anche in Woody Allen. Trovo affascinante il fatto che una scena ti diverta la prima volta e ti commuova la seconda. Come l’episodio delle aragoste in Io & Annie, uno dei miei film preferiti.

Nel suo film, lo stesso avvenimento si ripete, ma con un altro personaggio. È forse per suggerire l’idea di anima gemella, e che i due personaggi fossero destinati ad amarsi?

Non lo so. Nella mia testa, Alice ha letto il suo libro e quindi la gag del guanto di plastica può venire da lì. Allo stesso modo, la coppia di Michel Legrand e Nana Mouskouri, può avergliene parlato durante il week-end che passano assieme a Guéthary. Ma se pensiamo che siano anime gemelle, come quelle di Platone, la cosa mi sta molto bene. Questa sceneggiatura è stata riscritta molte volte, e nel corso delle varie versioni ci sono state molte idee che si sono aggiunte. È il vantaggio di avere lavorato molto duramente!

Ha atteso che questo progetto arrivasse alla piena maturità, invece di realizzarlo, con il suo nome, sulla scia di 99 francs?

Durante tutti quegli anni ho rinunciato diverse volte. E poi ci tornavo sopra. I produttori Michael Gentile e Alain Kruger m’incitavano. Alain è la persona che durante tutto quel periodo non ha mai smesso di crederci. Per quanto riguarda Michael Gentile, il più esperto (è il suo 8° film), è stato di grandissimo sostegno. Quando non ci credevo più, è arrivato a riservare per me una camera allo Château Marmont a Los Angeles, per quindici giorni, in modo che potessi rifinire la sceneggiatura nella Mecca del cinema! Con dei produttori così folli, era impossibile rinunciare!
Io avevo dei momenti di sconforto, o di fiacca. Nel frattempo, ho scritto anche Un roman français e Premier bilan après l’Apocalypse. Si dice che la letteratura sia un’arte maggiore ed eterna, mentre il cinema sarebbe provvisorio e recente. Il cinema è un’arte che prende più energia e tempo rispetto alla letteratura. Difatti, sconsiglio alle persone pigre di lanciarsi nella realizzazione di un film. Io che adoro oziare, ho scoperto che scrivere libri è una vacanza in confronto…. è un’altra forma di angoscia. Un film ti prende a tempo pieno per un anno. Ma è anche un mezzo per uscire dalla solitudine.

Fonte: Cosmopeoples

Intervista di Claudio Monti a Adriano Aprà… “Circo, Fellini e i segreti dei Clowns”

January 18, 2012 Leave a comment


“I Clowns di Fellini dopo 40 anni resta un film bellissimo e a rivederlo oggi, a distanza di così tanto tempo, è ancora più bello”. Lo dice Adriano Aprà, storico del cinema di lunga data, regista, ma anche un nome legato in passato alla direzione di importanti festival (come quello di Pesaro) e riviste di settore.
Al Torino Film Festival presentaCirco Fellini (42 minuti), un “prodotto” abbastanza inedito di video saggio critico che rilegge I Clowns di Fellini, appunto, con le splendide musiche di Nino Rota. Cerca di coglierne i segreti, l’animo profondo, la genesi di quella sorta di ossessione che Fellini ha avuto per il circo e per i clown in particolare, tanto da decidere di documentarsi in maniera approfondita sui grandi clown, anche se abbastanza sconosciuti al pubblico italiano, come il clown Rhum, di origini italianissime ma che diventò famoso in Francia, al Medrano. Fellini si reca a Parigi per studiarlo attraverso un raro cortometraggio del 1935 in cui l’augusto Rhum è insieme a Jacques Tati in Gai dimanche e lo inserisce ne I Clowns. Coinvolge Tristan Rémy e gli artisti del circo, quello vero, come Liana, Rinaldo e Nando Orfei. Federico Fellini entra nel circo, insomma, dalla porta principale, ed è questo percorso di simbiosi con la pista di segatura e con i suoi protagonisti comici, che lo porta al parto de I Clowns, un capolavoro insuperato secondo molti, che il documentario di Adriano Aprà riporta sotto i riflettori.
Cos’è esattamente il lavoro che lei presenta a Torino fra una decina di giorni? “Nasce come un extra del dvd del film I Clowns, e mi è stato chiesto dalla Rarovideo per una edizione americana”, risponde Aprà.
La Raro Video opera in Italia da parecchi anni e più di recente è sbarcata anche in America grazie alla partnership tra Gianluca e Stefano Curti e Nico D.J. Bruinsma, titolare dell’etichetta statunitense DVD Epics Cult. La decisione di Rarovideo di immettere nel mercato cinematografico i capolavori del cinema ad alta definizione (dvd e Blu-ray), ma anche opere inedite, sta incontrando un ottimo gradimento. E tra le prime pubblicazione della Rarovideo statunitense ci sono proprio I Clowns e adesso si aggiunge anche Circo Fellini di Adriano Aprà, in lingua italiana ma con i sottotitoli in inglese.
“Anziché sul solito extra, mi sono orientato sull’equivalente audiovisivo di un saggio critico. L’ho costruito inserendo brani del film di Fellini, spezzoni del volume I Clownscurato da Renzo Renzi, che ha un apparato storico molto ricco, poi ho utilizzato qualche disegno di Fellini relativo al mondo del circo, fotogrammi di film precedenti sempre incentrati sul circo e anche un testo di Fellini, in realtà scritto da Bernardino Zapponi (è stato lo sceneggiatore di sette film di Fellini, fra cui anche I Clowns, e nel libro Il mio Fellini ha raccontato la sua intensa amicizia e rapporto di lavoro col regista di Rimini, ndr) nel quale il maestro parla del suo rapporto con questo film. Anche di questo ho utilizzato alcuni brani che vengono letti da una voce femminile, Olimpia Carlisi”.

C.M.: I Clowns nasce come special televisivo nel lontano 1970: pensa abbia ancora un fascino per il pubblico che oggi è alla ricerca di buon cinema?

A.A.: L’avevo visto appena era uscito, e quando mi hanno proposto di realizzare l’extra ho voluto rivederlo per capire se ne ero stimolato. Consideri che io non sono un felliniano ma devo dire che l’ho trovato sorprendente. Ormai l’ho visto chissà quante volte e lo considero uno dei più bei film di Fellini. Non sono in grado di giudicare in che misura il circo di Fellini sia un mondo che vive nella sua testa o corrisponda invece alla realtà del circo, ma da studioso di cinema posso senz’altro dire che è un film bellissimo.

C.M.: Non uno dei minori, dunque, nella produzione di Fellini.

A.A.: Assolutamente no. Quando uscì venne considerato come un buon film, ma – come s’usa dire – un po’ fatto con la mano sinistra. Credo che questo giudizio dipendesse da una ragione abbastanza semplice: I Clowns nasce come produzione televisiva, non per il cinema. Ma in realtà, e me ne sono reso conto ancora di più riguardandolo a distanza di tempo, è un film stupendo e per nulla datato nel quale Fellini mette in scena il suo universo personale ma offre anche un vero e proprio omaggio al mondo dei clown.

C.M.: E’ vero a suo parere che senza il circo non si capirebbe nulla di Fellini?

A.A.: Direi di si, il circo è un elemento centrale nel mondo di Fellini. Il suo cinema è un trionfo delle apparenze, sempre al di sopra delle righe, inventato gonfiando le cose….

C.M.: Non posso non approfittare di uno storico del cinema per affrontare un tema di cui si è spesso discusso: il cinema è un po’ figlio del circo e che tipo di legame li unisce?

A.A.: Il cinema nasce come fenomeno scientifico, ma agli inizi si evolve come fenomeno da baraccone. Viene mostrato come una meraviglia, poi si sviluppa come qualcosa di più nobile e prende le strade che conosciamo.

C.M.: Non sarà un caso se il 3D in Italia debutta con la pellicola di Totò Il più comico spettacolo del mondo, recentemente presentato al Festival di Roma.

A.A.: Infatti il 3D riporta un po’ il cinema a questo contatto con il circo, che è una delle sue origini…

C.M.: Qualcuno ha detto che il cinema ha sempre parlato di circo ma, in fondo, l’ha sempre tradito dandone una rappresentazione molto diversa dalla realtà del circo. Condivide o no?

A.A.: Se di tradimento si può parlare non è qualcosa di specifico che riguardi il circo, ma fa parte del meccanismo narrativo del cinema che tende a romanzare l’universo che rappresenta.

Claudio Monti

Fonte: Circo.it

Intervista di Alessia Mocci a Fabrizio Marrocu ed al suo “Uncle Bubbles”

“Uncle Bubbles” è un mediometraggio made in Sardegna che  ha riscosso notevole successo e curiosità. Il film è diretto da Fabrizio Marrocu, il quale ha curato anche soggetto, sceneggiatura, fotografia e montaggio. Il soggetto è frutto di una collaborazione che ormai dura da tre anni tra il regista e Flavio Picciau, insieme hanno lavorato a tre cortometraggi di elevato carattere sperimentale, “Paolo”, “Ermanno”, “Arturo”.
“Uncle Bubbles” mette in rilievo l’ineluttabilità della vita ed i suoi movimenti che portano allo sfascio di una famiglia, di un rapporto fraterno, l’ineluttabilità della coerenza, la paura fa da sovrana in un thriller che trascina con se l’ombra di un horror stilistico.
5 attori protagonisti. 4 sono fratelli, due presentano degli handicap mentali. I 4, a causa di un’eredità,  percorreranno momenti di profonda crisi. Il quinto personaggio è il Dottore. Vera star del cast, però, è il mistero che si cela dietro la figura dei due fratelli handicappati e della rabbia incontrollabile dei due restanti. Termina con il sangue, termina in modo inaspettato, nell’oscurità della selvaggia ignoranza umana.
“Uncle Bubbles” è caratterizzato da una dicotomia topografica di forte impatto, specchio delle indoli degli attori protagonisti. Lo sguardo dello spettatore è accompagnato in due piani in equilibrio, esterno ed interno, allo stesso modo della psiche dei cinque personaggi anch’essi in contrappeso. X e Y sono personaggi interni, A e B sono esterni ed il dottore rappresenta un costituente isolato che determinerà la ricostruzione originaria dei quattro.
PROIEZIONI:
2010:
–         Locale “La Baracca Rossa”, Cagliari, ottobre
2011:
–    Cittadella Universitaria, “Cinephorum Fisica”, Cagliari, febbraio

FESTIVAL:
2010:
–    “Settembre dei Poeti”, Seneghe (OR), settembre
–     Festival di Arti Visuali Indipendenti “VillaCine”, Villacidro (VS), novembre
–   “Babel Film Festival”, Cagliari, dicembre
2011:
–    “ForumGShortFilm”, Santa Teresa di Gallura, gennaio
–    “Visioni Italiane 2011”, Bologna, febbraio

A.M.: “Uncle Bubbles” è stato proiettato durante la sesta edizione di “Settembre dei Poeti”. Come ha reagito il pubblico?

Fabrizio Marrocu: Ero abbastanza teso prima dell’inizio della proiezione. Per una serie di motivi non siamo riusciti ad effettuare delle prove tecniche e abbiamo montato proiettore e pc in pochi minuti. Il risultato è stato quello di una resa audio non ottimale, ma nonostante tutto il pubblico è rimasto catturato dalle immagini che scorrevano. C’era un po’ di preoccupazione, poi dopo aver visto tutti quei ragazzi con lo sguardo fisso sul telone ho capito che le cose stavano andando bene. Il pubblico è stato molto caloroso. E’ stato un piacere proiettare il nostro corto a Seneghe in un contesto come quello del Settembre dei Poeti.

A.M.: Quando e come è stata partorita l’idea di costruire insieme “Uncle Bubbles”?

Fabrizio Marrocu: Dovevo girare un cortometraggio ambientato in un campetto da calcio in cui le riserve si alternavano durante la partita dandosi il turno. Ognuno di loro raccontava degli aneddoti e faceva delle considerazioni su ciò che accadeva in campo, raccontandosi. Doveva essere una storia corale, dai contenuti testuali apparentemente slegati, in cui la narrazione veniva affidata a questi personaggi un po’ borderline. Avevo scelto di intitolarlo Uncle Bubbles. L’idea di cambiare la trama è venuta dopo, nel corso delle settimane a seguire. In pratica la storia, la scelta del soggetto, è ruotata attorno al titolo che invece rimaneva sempre lo stesso.
Avrò cambio idea almeno 5 o 6 volte. Alla fine è venuta fuori questa trama. La scrittura del soggetto base è avvenuta nel giro di una manciata di sms scambiati tra me e Flavio Picciau, con cui ho girato il mio primo corto ed assieme al quale ho inventato il metodo di lavoro con cui ho realizzato tutti i miei successivi progetti.

A.M.: Quando è nata la collaborazione Marrocu-Picciau?

Fabrizio Marrocu: È nata per gioco. Avevo avuto diverse esperienze sul set di alcuni cortometraggi girati con un’impostazione produttiva classica e volevo tentare un approccio più sperimentale e fluido, meno legato alla parola scritta, e lasciando piena libertà all’attore. In “Paolo”, Flavio parla e si muove nello spazio ininterrottamente per diverse ore improvvisando ogni cosa. Situazioni, movimenti, luoghi visitati, contenuti sono tutti frutto delle sue reazioni momentanee rispetto allo spazio ed a ciò che diceva. Non l’ho fermato quasi mai se non in alcune occasioni e quando dovevo cambiare il nastro alla telecamera. Al montaggio ho selezionato le frasi dei suoi discorsi fino a formare una sorta di storia auto-narrante. Non c’era il minimo abbozzo di sceneggiatura o soggetto, soltanto una situazione iniziale da cui doveva partire e muoversi liberamente. Il risultato ci ha lasciati sorpresi perché effettivamente ne è venuta fuori una circolarità narrativa completa con dei lati oscuri molto ambigui.

A.M.: Pensi che questo feeling artistico sia in continua crescita?

Fabrizio Marrocu: Vista l’evoluzione che c’è stata direi di sì, e spero che continui a lungo.

A.M.: “Uncle Bubbles” è stato girato e montato in tre mesi. C’è qualcosa che a posteriori faresti in modo diverso?

Fabrizio Marrocu: Sicuramente pagherei chi mi ha dato una mano a fare ciò che abbiamo fatto. È un lavoro a tutti gli effetti. Il carattere di questo genere di progetti è inclusivo e c’è bisogno delle specifiche capacità e dell’impegno di diverse persone. È una cosa che non si può fare in solitudine.

A.M.: La scelta dell’utilizzo del linguaggio dialettale villacidrese segue un tuo preciso percorso artistico/linguistico?

Fabrizio Marrocu: No. Tempo fa avevo in mente di fare dei piccoli sketch recitati in un linguaggio inventato ma non li abbiamo mai girati. Non sto seguendo un percorso in questo senso. Ciò che mi interessa maggiormente è perfezionare il nostro metodo di lavoro in modo da renderlo efficace nel maggior numero di contesti possibili.

A.M.: Hai qualche aneddoto curioso avvenuto durante le riprese da raccontare ai nostri lettori?

Fabrizio Marrocu: Abbiamo avuto Mario Legna sul set.

A.M.: Gli attori di “Uncle Bubbles” sono tutti non professionisti. Qual è il vantaggio del lavorare con attori casuali?

Fabrizio Marrocu: Non sono un attore ma posso immaginare alcune cose. Il discorso può essere affrontato considerando il fatto che di base esiste un rapporto tra il metodo di lavoro utilizzato e la personalità dell’attore. Un attore professionista legge la sceneggiatura, impara i dialoghi, i tempi ed interpreta la parte. La interpreta conoscendo le strutture che compongono l’azione fisica che dovrà compiere (i suoi movimenti in rapporto allo spazio, alla scena ed a ciò che occupa in quel momento il set, compresa la presenza dell’operatore di ripresa e di altre figure). Il suo lavoro consiste nel calarsi il meglio possibile in una situazione già data a prescindere, percorrendola nel binario nel migliore dei modi possibili, a livello di coinvolgimento effettivo. È un approccio per cui bisogna studiare e che contempla l’uso di tutta una serie di metodi di lavoro propri della professione dell’attore. Nel nostro modo di lavorare la troupe è ridotta al minimo, oltre i personaggi possono esserci al massimo l’operatore ed un fonico, non vengono usate luci artificiali e non ci sono dialoghi da imparare a memoria. Non c’è una sceneggiatura, ma un canovaccio che descrive alcuni punti di svolta narrativi definiti a grandi linee ed altri particolari propri della singola scena. È più un pretesto per definire “cosa” fare giorno dopo giorno. Per il resto l’improvvisazione costituisce il fulcro centrale attorno a cui ruota tutto il sistema-film. Un uso controllato del fattore improvvisativo, che comprende ad esempio la reazione propria del personaggio (personaggio e non attore) ad un dato evento oppure ad un dato ambiente, consente di progredire attraverso l’utilizzo di quel canovaccio base che diventa una “sceneggiatura liquida” che non contiene dialoghi, ma che indica giusto le situazioni e descrive le atmosfere emotive. A monte vengono definiti i personaggi nel loro carattere e nelle loro attitudini, e gli stessi vengono poi messi al centro dell’azione con l’obiettivo di districarvisi all’interno nell’ottica del raggiungimento di punti di raccordo stabiliti ed utili all’avanzamento della narrazione. Ogni pezzo che compone il film diventa così ridiscutibile, confutabile e modificabile a seconda delle esigenze. Le possibilità di effettuare modifiche in corso d’opera aumentano esponenzialmente e tutti i soggetti coinvolti nell’atto filmico possono prendere parte a questo processo di conduzione della storia suggerendo le proprie impressioni e discutendole assieme agli altri. Questo metodo di lavoro conferisce al prodotto audiovisivo una natura plasmabile sia al momento della ripresa che al montaggio, poiché permette di non sacrificare la natura emozionale del lavoro a causa di imprevisti, ma di sfruttare anzi gli stessi come parti integranti della progressione narrativa.

A.M.: Quali sono i registi presenti e del passato che stimi a livello tecnico cinematografico?

Fabrizio Marrocu: Mi piacciono gli stili ed i lavori di Haneke, Lynch, Godard e Von Trier, sia per le considerazioni e gli apporti teorici di molti di loro che per l’effettiva bellezza della loro filmografia.

A.M.: Hai qualcosa in programma per il futuro? Qualche bozza di sceneggiatura sul desktop? Ci vuoi anticipare qualche cosa?

Fabrizio Marrocu: Di solito le idee sono estemporanee. Possono derivare da cose lette, pezzi musicali, o da eventi o aneddoti che accadono o di cui sentiamo parlare, poi rielaborati. Mi piacerebbe fare un cortometraggio o una sorta di mini-serie a puntate con soli personaggi femminili. Ma preferisco, per ora, dedicarmi alla promozione di “Uncle Bubbles” attraverso il canale dei festival e delle proiezioni organizzate. “Uncle Bubbles” è di certo un vero e proprio vettore biologico denso di significati e di portali aperti ad interpretazioni che sfociano sull’etico e sul sociale.

Vi lascio il link di riferimento per vedere per intero il corto “Uncle Bubbles”:

La colonna sonora è stata interamente curata da Stefano Guzzetti:
http://www.stefanoguzzetti.com/
La locandina di “Uncle Bubbles” è stata realizzata da Carlo Giambaresi. (contatto carbonmade)
Il PhotoSet di “Uncle Bubbles” è stato curato da Alessandro Loddi:

uncle-bubbles©photoSet

Contatto facebook Fabrizio Marrocu.

Filmografia:
–        PAOLO [2008] – Italia, durata: 23′
–        ERMANNO [2009] – Italia, durata: 50′
–        ARTURO [2009] – Italia, durata: 29′
–        UNCLE BUBBLES [2010] – Italia, durata: 39′

 

Intervista di Giovanna Arabini a Fabrizio Marrocu ed al suo “Uncle Bubbles”

G.A.: A me il film è piaciuto molto perchè pur partendo da una trama a prima vista semplice (le conseguenze di un’eredità su una famiglia di 4 fratelli) si sviluppa in maniera interessante e su più livelli. Era questo l’obiettivo? Il risultato finale è stato quello prefissato o qualcosa è cambiato durante la realizzazione, in itinere?

Fabrizio Marrocu: Siamo partiti da un canovaccio molto breve, circa mezza pagina Word, che serviva a delimitare dei checkpoint narrativi. Praticamente la storia che vedi nel corto, ma molto più semplificata e lineare, senza diverse scene nate in fase di ripresa e senza nessun riferimento legato all’estetica o alla forma. La mia premura principale era quella di realizzare delle atmosfere, non tanto delle scene. E per questo c’era bisogno di delimitare due livelli: luogo e personaggi. Cosa fondamentale è avere chiaro il mood mentale del progetto, quella sorta di “look emotivo” che ne determinerà poi il carattere. L’imprinting deve avvenire dentro la tua testa, nella dimensione delle intenzioni. Cerco sempre di non fare tanto caso alla scena in sé quanto al comportamento degli attori, che portando avanti il loro personaggio in vista del raggiungimento di quei checkpoint di cui parlavo prima, possono muoversi liberamente dando modo al proprio personaggio di vivere attraverso di loro. Se nella tua testa hai un film drammatico e assecondi la realtà con quell’idea, e resterai concentrato su quell’idea, verrà fuori un film drammatico. È come essere tristi o essere felici ed esprimerlo attraverso la scrittura. Un bravo scrittore raggiunge il lettore con i sottotesti che è in grado di generare attraverso le sue strutture, non tanto attraverso singole parole o singole frasi. La scrittura più efficace si esprime probabilmente attraverso i sottotesti che è in grado di generare, attraverso il non apertamente comunicato, che costituisce alla fine ciò che viene effettivamente comunicato.

G.A.: Gli attori sono tutti non professionisti ma particolarmente efficaci. Come è avvenuta la selezione? Ci sono stati dei casting? Cercavate dei “phisyques du rôle” particolari?

Fabrizio Marrocu: Gli attori del nucleo familiare sono tutti miei amici. L’uomo che interpreta il dottore, Ettore, insegna invece agronomia in una scuola superiore a Cagliari. Non ci sono stati casting. Avevo scritto il soggetto pensando già a chi avrebbe potuto interpretare quei ruoli e ho chiesto a ognuno di loro, uno per uno, se sarebbero stati disponibili a girare con me. Marcello, che in Uncle interpreta il fratello minore, aveva già incarnato un paio di personaggi in due miei corti vecchi. Due caratteri molto diversi tra loro, con molte sfaccettature e resi in maniera estremamente interessante. E non è un attore. O almeno non vive del mestiere dell’attore. Ma lo è. Sono cresciuto con loro cazzeggiando in adolescenza. Alla fine negli anni scopri che alcune persone che frequenti possiedono lati che consideri geniali, magari perché ti fanno ridere (certe scenette improvvisate e spontanee in cui qualcuno “diventa” qualcun’altro o qualcos’altro) ma che vengono presi sottomano, come cose normali. Ho cercato di far emergere quei lati delle loro personalità, ma in funzione di qualcosa di coeso.

G.A.: Ho letto da qualche parte che la sceneggiatura è stata scritta con Flavio Picciau e mi sono chiesta come potesse essere nata considerando che hai diretto “Uncle Bubbles”, a quanto leggo, con la tecnica dell’ “Improvisation” che, come ci si aspetta dalla definizione, pone centralmente la possibilità di improvvisare e per me, una control freak, questo ha un pò il sapore dell’anarchia. Gestisci in maniera tranquilla i risultati di questa tecnica? Non hai mai paura che il lavoro ti “sfugga” dalle mani? Lo chiedo perchè io ne sarei gelosa (e una pessima regista probabilmente)…

Fabrizio Marrocu: Non c’era una sceneggiatura ma una sorta di soggetto avanzato senza battute. Il plot principale è nato nel giro di 3 o 4 sms che mi sono scambiato con Flavio una mattina mentre eravamo entrambi a lavoro. La storia era abbastanza diversa, più semplice, e anche i personaggi avevano alla fine altre mire. Abbiamo cominciato con “Improvvision” (in quanto l’impro non è solo attoriale ma anche tecnica e di visione in larga parte) proprio per “lasciarci sfuggire il lavoro dalle mani” come principio base. Il ragionamento che sta a monte del mio metodo di lavoro è molto semplice e cercherò di spiegartelo con un esempio. Stai camminando in una strada e senti dei rumori provenire dalle case. Il cinema ti consentirebbe di vedere contemporaneamente il personaggio che cammina, ciò che succede contemporaneamente in 5 case da dieci punti di vista, e la reazione del personaggio alla tensione crescente ma che per motivi logistici probabilmente nemmeno vedrebbe. Avresti una visione chiara e didascalica di ciò che sta succedendo. Il controllo sulla situazione. Un livello di consapevolezza che non può esistere nella realtà. Quando giro non mi calo nei panni del deus ex machina che ha già scritto tutto, che ha già tutto nella mente e che usa gli attori come dei bambocci col compito di percorrere passo passo il suo percorso mentale. Nei miei lavori rifiuto questa onnipotenza, ho dei personaggi istruiti semplicemente ad essere se stessi che caccio in mezzo a delle situazioni. Situazioni base da cui decido di lasciarmi a mia volta sorprendere, in quanto nella stessa realtà non ci sono dei timer che definiscono delle scadenze e delimitano ciò che accade in maniera aprioristica. La realtà stessa non sarebbe veritiera. Utilizzo questo approccio da 3 anni e lo sto perfezionando. Le modifiche riguardano soltanto la possibilità di gestire con maggiore efficacia il maggior numero di situazioni possibili con questo metodo. C’è una retoricità nel caos che mi piacerebbe imparare a governare. Si potrebbe avere lo stesso approccio anche verso la vita, ma non è semplice perché non percepiamo quel che accade attorno a noi attraverso uno schermo.

G.A.: Una buona parte della bellezza di questo tuo lavoro è data, a mio parere, dalla location: un terreno aspro, enorme, un pò inquietante e gli edifici diroccati e spogli. Che ruolo ha avuto nella genesi del film? Avevate già deciso che avreste girato là durante la stesura dello script o è stata una scelta successiva?

Fabrizio Marrocu: Lo script era già stato scritto e avevo bisogno di un terreno dismesso, fuori dal paese. Luca (Marras), che mi ha assistito durante la fase di preparazione, mi ha messo davanti ad un paio di opzioni e mi ha portato in questo terreno. È stato il primo posto che abbiamo visitato. 13 ettari di niente. Quell’erba che vedi nelle camminate o quando i personaggi corrono, non era erba ma spine. Era veramente ostile. Il luogo adatto ad ambientarci una storia del genere.

G.A.: Di chi è stata l’idea del finale? Non è che lo sveliamo ma volevo dirti che mi è sembrata una vittoria (piuttosto amara e incosciente) dei più deboli, ciò che era nella mente dei”malati” si materializza proprio davanti agli occhi dei “sani”. Un finale onirico che a me è parso particolarmente azzeccato…

Fabrizio Marrocu: Il finale è stata l’unica cosa che non è mai cambiata in nessuna delle versioni dello script. L’unico punto fermo. Ho cercato allo stesso modo di renderlo il più aperto possibile -nonostante costituisca dal punto di vista del montaggio la sequenza più chiusa di tutto il lavoro. Non saprei. Non mi dispiace la tua interpretazione comunque.

G.A.: La presenza di “Uncle Bubbles” in “The SarDorialist” non è usuale, il mood è in genere più giocoso e colorato però speravo sinceramente che tu accettassi di parlare con me del tuo lavoro. In effetti mi è sempre stato fatto notare che quando rispondo alle domande relative al blog viene sempre fuori una nota un pò drammatica e poco glamour (anche se vorrei essere glamour, no, davvero, però è un Epic Fail continuo). Rimarco sempre la mia provenienza basso-sulcitana e il fatto di essere cresciuta in una realtà in cui la crisi e il disagio sociale erano all’ordine del giorno e gli scenari di “Uncle Bubbles”, sebbene enfatizzati, mi sono sicuramente più “familiari” rispetto a quelli patinati che tanto mi piacciono.
Non mi voglio certo paragonare a te, io sono una cazzona, ma credo che chiunque sia nato nella parte meno trendy, probabilmente più bella, sicuramente più disastrata dal punto di vista economico della Sardegna si porti dentro un pò di crisi. E’ così anche per te? O pensi che avresti affrontato certe tematiche indipendentemente dall’ambiente in cui sei cresciuto?

Fabrizio Marrocu: Tutti noi, come sardi, abbiamo un po’ avuto a che fare con situazioni del genere. Poteva essere il vicino, poteva essere un parente, potevamo essere noi. Personalmente non ho mai vissuto situazioni di questo tipo sulla mia persona, ma non è detto che non abbia voluto far trasparire dal corto alcuni lati della mia biografia estremamente sublimati. C’è sempre un po’ del proprio vissuto in ogni creazione o manufatto. La tematica affrontata non è stata comunque dettata da esigenze o necessità o ricerche sulla tematica o su quell’ambiente in particolare. Una storia vale l’altra. Siamo puntini nell’universo e nessuno sentirà la nostra mancanza quando il pianeta collasserà su se stesso a causa di un overflow di foto di gattini caricate su Internet.

G.A.: Mi chiedevo se avessi mai pensato di dirigere una commedia. Ti piacerebbe o pensi che non sia nelle tue corde?

Fabrizio Marrocu: Ho tentato due approcci verso il genere leggero -anche se non totalmente- in due miei vecchi corti, “Paolo”, e “Arturo”. Per restare in tema con la domanda forse più in “Arturo” sono presenti dei momenti di questo tipo. A una commedia dall’inizio alla fine, leggera, ma con dei toni molto da black humour ho già pensato e potrebbe anche essere. Non c’è niente che non senta nelle mie corde, se fatto con criterio e con una base concettuale forte. Quando ero studente annotai su un libro: “Noi non critichiamo l’oggetto, critichiamo l’atteggiamento che l’ha generato”.
G.A.: So che ora ti stai dedicando alla promozione di “Uncle Bubbles” ma hai già qualche idea per un progetto futuro? Vedremo presto un tuo nuovo lavoro o ci toccherà aspettare un po’?

Fabrizio Marrocu: Ho diverse idee. Una in particolare abbastanza precisa. O forse due abbastanza precise. Ma già il fatto che abbia usato i termini “forse” e addirittura due volte il termine “abbastanza” la dice lunga su quanto possa essere precisa la mia stima. In genere faccio una cosa all’anno.

G.A.: Ora ti porrò domande un pò più stupidine (ancora di più, sempre di più), nel mio stile, di quelle sceme sceme che tanto mi piace fare. Disastro ambientale cazzuto da virus zombificante: proprio a te, Fabrizio Marrocu, si chiede di salvare su uno shuttle in fuga dal pianeta Terra 5 pellicole cinematografiche (ti chiederai perchè l’hanno chiesto a te: tutti gli altri registi sono morti ad eccezione di te e Muccino. Io ho sparato in fronte a Muccino per tutelare ciò che resta dell’umanità, quindi ti tocca.).

Fabrizio Marrocu: Visitor Q (Takashi Miike), Nouvelle Vague (J. L. Godard), Il seme dell’uomo (Marco Ferreri), Salò o le 120 giornate di Sodoma (P. P. Pasolini), Dogville (Lars Von Trier).

G.A.: Che musica stai ascoltando adesso? C’è una canzone di cui vorresti girare (o vorresti aver girato) il video?

Fabrizio Marrocu: Non sto ascoltando nulla al momento. Vorrei produrre però qualcosa di molto rumoroso e japanoise oriented. L’ultima cosa che ho ascoltato, ieri, sono stati i primi quattro brani di Red Medicine dei Fugazi, ma nel cuore ho soltanto Pain Jerk e Government Alpha. Al momento. Anche se non li ascolto.

G.A.: Guardi mai dei film bruttissimi la quale bruttezza ti è palese ma li guardi ugualmente? Io ieri ho visto un film strappalacrime con Mandy Moore nel ruolo della brava ragazza malata che muore e alla fine ho pure pianto. Era una cosa oscena. Orrenda. Eppure l’ho guardato tutto. Sii umano, dimmi che lo fai anche tu.

Fabrizio Marrocu: Lo faccio anch’io, sì. Potrei essere piuttosto incazzato per i film brutti che passano, ma è difficile restare arrabbiati quando c’è tanta bellezza nel mondo. Ed anche i film bruttissimi sono riflesso dell’attorno, sono prodotti del mondo, ne sono anch’essi uno specchio, magari deformante, ma sono un punto di vista di qualcosa di più grande, che alla fine dei giochi è meraviglia. A volte è come se la vedessi tutta insieme, ed è troppa. Il cuore mi si riempie come un palloncino che sta per scoppiare. E poi mi ricordo di rilassarmi, e smetto di cercare di tenermela stretta. E dopo scorre attraverso me come pioggia, e io non posso provare altro che gratitudine, per ogni singolo momento della mia stupida, piccola vita. (cit.)

G.A.: C’è un film universalmente considerato un capolavoro, magari materia di studio all’università, che però a te fa schifo o, perlomeno, consideri sopravvalutato?

Fabrizio Marrocu: Non so se sia considerato un capolavoro, ma ho un conto in sospeso con la Medea di Pasolini. Anche dopo 5 caffè non sono mai riuscito a guardarlo per più di 20 minuti senza addormentarmi.

G.A.: Qual è l’ultima pellicola che hai visto al cinema? Ti è piaciuta?

Fabrizio Marrocu: Forse l’ultimo film visto al cinema è stato “The social network”, di Fincher. E… sì, mi è piaciuto. Avrei preferito vedere “Machete”, che ho aspettato molto, ma purtroppo da noi non è arrivato.

Ringraziando per l’ennesima volta Fabrizio vi rimando alla visione di “Uncle Bubbles” (qui) e al suo canale vimeo per dare un’occhiata agli altri suoi lavori (qui).
Ci fa piacere anche segnalarvi il compositore della colonna sonora del film che si chiama Stefano Guzzetti (stefanoguzzetti.com) e Alessandro Loddi il fotografo che ci ha regalato gli scatti del backstage (questo è il suo flickr).
Chiaramente estendo i complimenti al cast e alla troupe.
Queste sono robe sarDorialiste serie.
Intervista a cura di Giovanna Arabini per The SarDorialist.

Fonte: Oubliettemagazine

Intervista di Alessia Mocci a Stefano Guzzetti ed alla sua colonna sonora in “Uncle Bubbles”

Stefano Guzzetti nasce a Cagliari nel 1972. La passione per le note inizia con Johann Sebastian Bach (1685-1750), passione che continua ad essere presente nella vita del musicista ancor’oggi. L’iniziazione di Stefano alla musica è ovviamente di tipo organistica, si muove inizialmente nello splendore della musica classica per poi costruire una personalissima via che porterà ad una sperimentazione votata allo svisceramento del linguaggio musicale e dei suoi costrutti semantici-uditivi-emozionali.
Da questo iperbolico studio si è giunti all’elettronica ed all’ambient, alla ricerca ed al riscontro di contesti in dicotomia tra il contingente ed l’essenziale.
Di recente Stefano ha collaborato anche con il cinema realizzando la colonna sonora del mediometraggio  “Uncle Bubbles” diretto da Fabrizio Marrocu, i brani dell’opera manifestano un’ intima capacità di scomposizione delle immagini in note.

Stefano Guzzetti è stato molto disponibile con noi nel rispondere ad alcune domande sulla sua vita e sulla sua arte. Buona lettura!

A.M.: La tua carriera musicale inizia a nove anni. Ti ricordi la sensazione che hai provato alla tua prima lezione?

Stefano Guzzetti:  Assolutamente sì. Ricordo benissimo. Avevo già alle spalle qualche lezione di musica avviata a scuola, ma volevo proprio approfondire la cosa. Mio fratello prendeva lezioni di organo elettronico (i miei pensavano che a lui interessasse tantissimo, nella vita poi l’ha finita a fare il dentista con una passione davvero profonda per il proprio mestiere) ed io ero avido di ogni nota che sentivo uscire da quello strumento musicale. Ero poi in fissa con la ‘Toccata e Fuga in re minore’ di J.S.Bach che, oltre ad essere un brano musicale di immensa bellezza e profondità, era per me anche fonte di varie sensazioni sinistre, visto che al tempo quel brano era usato come sigla di un ciclo televisivo di film horror su Rai 1. Conservo tuttora una fascinazione verso le cose decadenti e verso la musica non proprio allegra, grazie a quel connubio casuale che mi ha marcato la vita.
Di fatto poi, la prima lezione è stata come aprire un cancello che non ho più chiuso. Adoro il linguaggio musicale, adoro il suono dell’organo (ho sempre in mente di comporre una serie di brani esclusivamente organistici), non quello tipicamente blues o jazz (l’Hammond per intenderci), ma quello liturgico, con i suoi suoni bassi, i bordoni ecc… Le mie prime lezioni erano focalizzate sull’imparare il primo minuetto dal ‘Diario di Anna Magdalena Bach’, scritto appunto da Bach per la moglie (e i figli) per puro scopo didattico e di intrattenimento. Quel minuetto lo suono tuttora di tanto in tanto perché per me vuol dire parecchie cose. In primis l’inizio di tutta la mia avventura musicale.

A.M.: Da allora ti sei evoluto notevolmente, ci puoi indicare i mutamenti stilistici maggiori avvenuti durante il tuo percorso?

Stefano Guzzetti:  Dopo i miei primi anni esclusivamente segnati dalla musica classica, nei primi anni ’80 ricevetti per regalo un home computer, un MSX. Per mia fortuna non era il conosciutissimo Commodore 64, perché l’avrei finita a comprare le cassette con i giochi in edicola e non avrei fatto quello che  feci, ovvero: spinto dalla curiosità, iniziai a programmare in Basic ed in linguaggio macchina, con lo scopo di far suonare il mio computer insieme all’organo di casa. Ricordo ancora come se fosse oggi; in un programma in prima serata condotto da Pippo Baudo (si chiamava ‘Fantastico’) vidi degli svogliatissimi Kraftwerk che, per puri doveri promozionali, erano lì a proporre il loro singolo ‘Pocket Calculator’… avevo circa  11 anni, ma rimasi folgorato… quindi diciamo che la passione per la musica elettronica nasce allora per poi passare in varie fasi, dall’indie pop dei New Order negli anni ’80, all’acid house (amai alla follia quell’esperimento degli Shamen intitolato ‘In Gorbacev We Trust’ nel 1989), all’industrial (tutta la scena Contempo Records in primis, con Clock DVA, Pankow, Lassigue Bendthaus, ma anche la scena Minus Habens per esempio), alla drum’n’bass, sperimentale, ambient (in un breve periodo credo di avere ascoltato solo Brian Eno) ecc. C’è anche una parte di me meno elettronica e sperimentale, ed è quella nata dagli anni della mia adolescenza in cui scoprii artisti come Cure, Siouxsie & The Banshees, Joy Division, Death in June ecc…
A 16 anni comprai il mio primo basso e da allora non ho mai smesso di suonarlo. Ho amato tantissimo la scena 4AD, quanto meno quella degli artisti del roster di Ivo Watts-Russell; parlo chiaramente di Cocteau Twins, Dead Can Dance, This Mortal Coil, His Name Is Alive, Clan of Xymox, Wolfgang Press, Lush, Pale Saints… ma anche di cose meno morbide come Pixies, Breeders, Throwing Muses ecc.
Nei primi anni ’90 ho fondato assieme al mio grandissimo amico Valentino Murru un gruppo chiamato ‘Antennah’. Con quel gruppo ho avuto delle belle soddisfazioni, almeno fintanto che ne ho fatto parte, ma poi ho lasciato la barca per dedicarmi esclusivamente ai miei progetti di musica elettronica. Allo stato attuale sono iscritto al corso di laurea in ‘Musica e Nuove Tecnologie’ (ex-Musica Elettronica) presso il Conservatorio di Musica di Cagliari.

A.M.: In quale panorama artistico inseriresti il tuo prodotto?

Stefano Guzzetti:  Allo stato attuale io produco secondo vari tipi di forme musicali; non per l’urgenza di esserci ad ogni costo, ma semplicemente perché col tempo acquisisci certe dialettiche e le fai tue. Conseguentemente ami fare cose diverse, giusto per soddisfare la natura multiforme che col tempo si è formata. Nel mio sito (www.stefanoguzzetti.com ) ci sono fondamentalmente tre sezioni musicali: una elettronica / ambient dove colloco i lavori di natura anche elettroacustica, i lavori nei quali l’estetica della macchina è proprio (ed intenzionalmente) palesata, proprio come un elemento imprescindibile. Nella sezione ‘Beats / Remixes’ ci sono appunto sia remix (adoro remixare, specialmente tenere solo la parte vocale di un pezzo e costruirci sopra una musica tutta nuova, cambiando il centro armonico e dando quindi alla voce un significato diverso) che pezzi elettronici anche ‘ballabili’. Infine una terza sezione ‘Piano / Suite Music’ racchiude molti pezzi di natura pianistica, o neo-classica, pezzi insomma che per esempio troverebbero facile impiego in una colonna sonora oppure in un documentario… Rispondere quindi alla tua domanda non è fattibile con una sola risposta: nel senso, faccio diverse cose, le mie creazioni si collocano in contesti abbastanza diversificati. Per esempio, a breve parteciperò al Signal col lavoro ‘Microcosmos’ ed a Miniere Sonore con il lavoro ‘Abandoned’, ma a breve uscirà il remix che sto producendo per il singolo ‘Passerà’ del mio amico cantante (peraltro bravissimo) Alessio Longoni.

A.M.: Gradiresti “l’etichetta” di un “intonarumori”?

Stefano Guzzetti:  L’intonarumori era l’invenzione del futurista Luigi Russolo. Era una specie di campionatore dei primi del secolo. Nel contempo Erik Satie creava la sua ‘musica da tappezzeria’, una musica da suonare quasi in maniera impercettibile, la cui funzione era quella di ‘riempire’ la stanza, decorarla. Diciamo che concettualmente erano state gettate le basi dell’ambient music. Del resto le Gymnopedies di Satie questo sono: ambient music dei primi del secolo. Quindi, se l’intonarumori sta al campionatore come la musica da tappezzeria sta all’ambient music, sono molto onorato di quest’etichetta. Molto gradita. Anche perché, in molti miei brani, tipo ‘The Next Two Days’ o ‘Sea Flower’ da Microcosmos, ho proprio campionato rumori e suoni della natura e li ho scalati fino a farli diventare armonicamente consonanti col resto del pezzo. È bellissimo e molto interessante operare in questo senso, senza far sì che una scalatura (stretching) eccessiva non spersonalizzi la riconoscibilità e derivazione semantica del suono stesso. Intonare i rumori appunto; e cercare di fare delle cose interessanti con tutto questo.

A.M.: Recentemente hai curato la colonna sonora del medio metraggio “Uncle Bubbles” diretto da Fabrizio Marrocu e presentato ufficialmente al Settembre dei Poeti 2010 a Seneghe. Come ti sei rapportato nei confronti della concatenazione delle immagini?

Stefano Guzzetti:  Non perché sia un avvenimento recente, ma davvero, oggettivamente, credo di essere stato una persona molto fortunata ad avere incontrato Fabrizio nella mia strada. A volte ti capitano delle cose inaspettate, bellissime, che ti aprono un mondo intero. Ed io nel mondo di Fabrizio mi ci sono buttato a capofitto. Mesi fa, tramite un amico in comune, Fabrizio ha potuto ascoltare qualche mio lavoro; mi ha contattato e mi ha passato i link dei suoi primi lavori (nei quali è chiaramente visibile una grande penna ed uno stile del tutto fuori dal comune, per quanto acerbo in quei primi corti) ed il viral trailer di “Uncle Bubbles”. Vedere i pochi minuti di quel trailer mi ha fatto subito capire che quel corto (poi diventato un mediometraggio) sarebbe stato una bellissima occasione di entrare nel vivo del processo creativo con una persona speciale. Ed i fatti non mi hanno dato torto. Fabrizio è una persona che lavora sodo, si vede dai risultati dei suoi lavori finiti. E soprattutto è una persona di una consapevolezza estrema. Sa quello che vuole, sa quando può o non può fare qualcosa. Mi ha dimostrato grandissima professionalità trasferendosi a Cagliari per un paio di settimane nel periodo del montaggio; in quei giorni abbiamo davvero fatto un bellissimo lavoro di team, quasi componevo un brano al giorno (fortunatamente ero in ferie) ed a fine giornata andavo da lui a vedere come ci stava col girato. Io credo non sia così facile incontrare persone motivate come Fabrizio, soprattutto (purtroppo) nel panorama isolano; quando trovi persone di questo calibro devi solo ringraziare di averle incontrate e rimboccarti subito le maniche. E così ho fatto. Amo totalmente “Uncle Bubbles”, è elegante, poetico, e nel contempo ruvidissimo.

A.M.: Quali sono gli artisti che reputi siano stati decisivi per il tuo creare?

Stefano Guzzetti:  In circa 30 anni di musica nella mia vita, ci sono stati vari artisti che mi hanno segnato profondamente l’animo; a loro devo tutto, per esempio la scoperta di mondi complessi e nel contempo semplici e belli, di una poesia immensa. Parlo di Johann Sebastian Bach, Erik Satie, Maurice Ravel, il primo Michael Nyman, Philip Glass, Steve Reich, Arvo Part e Eberhard Weber. Ma anche di David Sylvian, Brian Eno, Cocteau Twins, Dead Can Dance, This Mortal Coil, Red House Painters, e tanti, tantissimi altri nomi ancora…
Credo potrei rimanere giorni interi a parlare di musica, a parlare di dettagli, piccoli dettagli di un pezzo od una canzone che invece mi hanno dato l’intuizione per scoprire elementi musicali ben più ampi e profondi. Perché la vita è formata da piccoli dettagli, apparentemente semplici ed insignificanti che, se guardati da vicino, ti fanno sentire piccolo piccolo nella loro improvvisa grandezza. Una cosa la so per certo, me lo dico da un paio di decenni, chissà poi se succederà davvero: l’ultima volta che chiuderò gli occhi, se mai ne sarò consapevole, farò di tutto perché nella mia mente suoni ad alto volume ‘Holocaust’ dei This Mortal Coil (dall’album ‘It’ll End in Tears’ del 1984). Quegli archi mi straziano il cuore da sempre. Spero saranno la giusta apoteosi di tutto.

A.M.: Hai qualche progetto per il futuro? Ci anticipi qualcosa?

Stefano Guzzetti: Appena finiti gli impegni con il Signal e Miniere Sonore, finirò il remix per Alessio Longoni, poi credo inizierò una nuova produzione con il combo di Esse(d)Esse insieme a Raimondo Gaviano (Svart1), Roberto Belli (NihilNONorgan) e Mauro ‘Khil’ Melis. Inizierò poi (finalmente) la produzione di un nuovo lavoro incentrato sullo studio delle tessiture, sia dei materiali veri e propri che musicali. A fine anno andrò inoltre a suonare a Padova, Venezia e dintorni per la gente di Laverna (www.laverna.net ) con cui ho fatto uscire il mio lavoro ‘Silent Microcosmos’ a metà settembre. Nel contempo finirò anche la mia serie ‘Eight Planets’ e preparerò un live set di natura sicuramente ballabile.

Ringraziando Stefano per la disponibilità invito tutti i lettori ad ascoltare “Holocaust” ed a visitare il sito del musicista:
http://www.stefanoguzzetti.com/site/Home.html

Per vedere “Uncle Bubbles” diretto da Fabrizio Marrocu:

Info su “Uncle Bubbles”:
http://oubliettemagazine.com/2011/02/24/uncle-bubbles-un-film-di-fabrizio-marrocu/

 

Intervista di Stefano Bellotta al grande regista Jesus Franco Manera

November 22, 2010 Leave a comment

S.B.: Oggi sei riconosciuto come un grande regista di culto del ginema di genere, tu come ti vedi?

Jess Franco: Non credo di aver fatto qualcosa di importante o magnifico. Sono solo uno che ha lavorato nel cinema, e la cosa che preferisco nella mia vita è proprio fare cinema. Quando faccio film, sono felice.

S.B.: Hai detto veramente, “io non credo di aver fatto dei buoni film, ho cercato di non fare delle schifezze, ma qualche volta non ci sono riuscito”?

Jess Franco: Non mi piacciono i miei film… preferisco i film di John Ford. [Ride divertito]. Ho fatto dei film interessanti, o carini. Ma non ho mai fatto qualcosa di grande, dal mio punto di vista. “Big”, come John Ford che è il mio regista preferito.

S.B.: Hai anche detto che a volte ci si avvicina la cinema come un musicista fa jazz. Vuol dire che non sempre si conosce il risultato finale?

Jess Franco: Ho iniziato la mia vita in una scuola di musica, e sono diventato un accettabile e suonatore di tromba. Ma c’è stato un momento nella mia vita in cui ho dovuto fare una scelta: regista o trombettista. Io amo la musica e il cinema, ma il futuro da un trombettista non mi avrebbe dato soldi, era un futuro dalle aspettative incerte. Ho deciso di dimenticare la musica. Non proprio dimenticate, perché questo è impossibile, ma ho deciso di lavorare nel cinema, e così sono diventato uno che ama la musica, e che cerca di fare musica con i suoi film.

S.B.: Molti dei suoi film sono incentrati sui temi del sesso e della  morte. Che significato hanno per te queste due tematiche?

Jess Franco: Credo che la morte e il sesso vadano a braccetto. Se si fa sesso in modo divertente, è tutto a posto… Ma quando si sta facendo sesso in modo serio, la morte è sempre in giro.

S.B.: Tu e Luis Buñuel eravate una voltai registi più “odiati” dal Vaticano. Tu volevi solo scioccare gli spettatori?

Jess Franco: Scioccare? Non credo che nessuno sia rimasto scioccato dai miei film.Stavo lavorando a Parigi, un giorno, quando mi dicono: “Senti, adesso siamo guardati con molta attenzione, perché siamo stati condannati dal Vaticano.” E io dico: “Cosa? Perché? E’ così stupido. Ma in realtà non mi importava perché non sono mai stato un cattolico.

S.B.: Se dovessi scegliere, nella tua filmografia, il film definitivo, per quale opteresti?

Jess Franco: Non credo di avere un film definitivo. Una cosa del genere non è possibile per me.

S.B.: Pensi mai di lasciare il cinema ed andare in pensione?

Jess Franco: in pensione? Sarò in pensione il giorno della mia morte.

S.B.: Una volta hai detto: “Non mi importa di essere ricordato.” Con il tempo hai cambiato idea?

Jess Franco: No, no, no. Non mi importa di essere ricordato. Io non sono uno scrittore o un artista nel senso stretto. Penso che sia un errore considerare i registi, come degli artisti. Penso che un regista faccia film per intrattenere la gente, ma non devono essere considerati come se fossero tanti Cervantes. Uno dei maggiori problemi ora, con tutti questi festival e premi è che si fa confusione tra qualità e bellezza… ma i registi intrattengono il pubblico e basta. Un film è un film. E’ qualcosa per far divertire un paio d’ore. Non è Shakespeare.

S.B.: Quindi non c’è neanche un cineasta che possiamo definire artista?

Jess Franco: Probabilmente ci sono cinque o sei registi che hanno fatto qualcosa di veramente grande. Orson Welles, il mio grande amico, è uno che dovrebbe essere ricordato come un genio. Ho lavorato con lui per molto tempo, ed era così intelligente e brillante. Ma in generale, niente di che… Ho un sacco di amici nella professione, e posso dirvi, per esempio, che Nicholas Ray era un uomo molto intelligente, ma lui non era un genio. In generale, un film è un film. Il problema è che non credo sia così importante per un regista sapere se ha fatto un capolavoro, basta crederci. Ora basta sono stanco. I love cinema. Amo il mio lavoro. I love you.

Fonte: MondoRaro