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Archive for the ‘Fotografia’ Category

Mehdi Georges Lahlou, l’uomo dai tacchi rossi

February 4, 2013 Leave a comment

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Nelle sue creazioni, il fotografo pittore Medhi Georges Lahlou prova a rispondere alle tante proibizioni del sesso e della religione, con humor e leggerezza. Zoom su di un artista che fa dell’ambiguità il suo marchio di fabbrica.
Lahlou ha preso l’abitudine di percorrere decine di kilometri sui suoi tacchi a spillo rosso fuoco ; qualcuno potrà pensare che sia una forma di provocazione o di eccentricità ma in realtà è un suo puro divertissement. Questo giovane artista, che presenterà i suoi lavori quest’anno al DabaMaroc (una stagione artistica dedicata all’arte contemporanea marocchina a Bruxell), si serve delle sue prestazioni per regalare al suo pubblico un universo meraviglioso e spostato. E piace. Nato da una madre spagnola cattolica e da un padre marocchino musulmano, trascorre la sua infanzia tra il Marocco (Casablanca) e la Francia. Diplomato alla scuola regionale di Belle Arti a Nantes prosegue i suoi studi al St. Joost Accademy di Breda, in Olanda, confrontando con il suo lavoro i paradossi quotidiani delle sue due culture, arabo-musulmana e giudeo-cristiana. Una sintesi che vuole perseguire senza affronti. ”Raccolgo delle immagini opposte che, alla fine, non lo sono. Ma capisco l’incomprensione delle immagini nuove“. Le sue immagini sono provocanti. Prima dei ”Tacchi di Allah“, ha messo in scena nel ”Cocktail o autoritratto in società“, alcune scarpe con tacco a spillo, di un rosso vivissimo, sexy e diaboliche, nel bel mezzo di un tappeto da preghiera davanti al quale si allineano diverse scarpe maschili. In altre rappresentazioni l’artista si denuda o si traveste, servendosi del suo corpoper costruire un ponte tra due estetiche precise. ” Il mio lavoro è autobiografico e parla di me“.Lui è il personaggio principale delle sue creazioni e non esita a mettersi in scena con modalità burlesche e ironiche. In una frase Mehdi respinge i suoi limiti, brucia e trasforma le frontiere culturali, identitarie e religiose per ricreare il suo mondo, decostruendo clichès e tradizioni, decomponendo la sua identità, multipla. Con le sue danzatrice del ventre si traveste e rivisitala mascolinità nel mondo arabo ma il pubblico non è mai sicuro che si tratti di un affronto. Il suo segreto ? L’ambiguità. È la base e la forza del suo lavoro prorompente; è quella che crea tensioni nel pubblico, che scava nei diversi sentimenti personali. Questa ambiguità diventa la sua linea di difesa contro le eventuali controversie; il ridicolo e l’humor sono presenti per consolare i  sentimenti che deragliano. Se le sue creazioni portano il pubblico a farsi domande, l’artista rifiuta l’idea di veicolare un messaggio qualunquista. È nell’immaginario e nella meraviglia che desidera restare; ”Nulla è reale, tutto è immaginario“, questo il suo karma. Il risultato del suo lavoro spinge inevitabilmente a farsi delle domande senza risposte. Ognuno ha la sua interpretazione. Ad oggi Medhi ha esposto principalmente in Europa e dichiara: ”Non espongo le stesse cose in Marocco; le culture sono differenti e le immagini non hanno la stessa storia“. Già, la prova provata, una delle sue opere che rappresenta il suo corpo nudo su cui appaiono versetti del Corano ha creato una feroce polemica durante il Marrakech Art Fair del 2011. Questo lavoro, pubblicato su Internet, non doveva essere esposto in Marocco perchè, secondo Mehdi, l’artista può zommare su dei temi delicati come la sessualità, l’omosessualità o la religione, ma deve farlo diversificando in funzione del luogo dove saranno esposti i lavori. ”Non sono qui per criticare o per essere irrispettoso; prima di iniziare un lavoro devo sapere dove esporrò e non procedo nello stesso modo se preparo una esposizione in Marocco o in Europa ». Un rispetto profondo dunque che contraddice la sua personale storia, i suoi lavori e le sue peculiarità, che tracciano visivamente un percorso di vita in bilico tra due culture e due religioni contrapposte al suo essere artista controcorrente, che hanno però forgiato in lui l’espressione più vera delle abusate paroleRispetto dell’Altro, qualsiasi Altro sia.

Paolo Pautasso

Fonte: My Amazighen

“Guerrilla knitting”, colore in ambiti urbani da Magda Sayeg

March 9, 2012 Leave a comment

Uno bell’esempio di Guerrilla knitting realizzato a Sydney da Magda Sayeg (tra l’altro la home del suo sito è veramente ipnotica). La foto è sicuramente ritoccata, ma l’idea di portare del colore in ambiti urbani di per se anonimi è interessante e permette varie applicazioni nelle nostre città.

Fonte: Linea Di Sezione

Henry Hargreaves, cibo dell’arcobaleno

November 16, 2011 Leave a comment

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Henry Hargreaves… la prima esperienza nel campo della fotografia è stata per case di moda come Prada, Yves Saint Laurent e Jil Sander, continuando poi in questo settore per alcuni anni. Quattro anni fa ha affittato un monolocale a Williamsburg, Brooklyn e ha iniziato con riprese still life per clienti come Ralph Lauren, New York Magazine, GQ, NYLON, Boucheron, Marie Claire e via di seguito… Questo lavoro  della serie ‘Arcobaleno’ sullo stile di Lisa Edsalv é fantastico! Per maggiori informazioni http://www.henryhargreaves.com | http://www.lisaedsalv.com |

Marius Creati

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Cecil Beaton a Tangeri, un Marocco d’autore

June 13, 2011 Leave a comment

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Gli anni ’30 furono per il grande fotografo Cecil  Beaton anni di grande lavoro. Viaggio’ dal Nord Africa alla Spagna, dalla Russia a Palm Beach, passando per Città del Messico. Il lavoro fatto da Beaton in quel decennio rifletterà tutta la sua esperienza e la sua tecnica fotografica. Ritratti di un sempre più vasto campionario di personalità del mondo dello spettacolo, delle arti, hight society, fotografie di moda e le immagini affascinanti che documentano i suoi viaggi  oltreoceano. Cecil Beaton univa elementi barocchi per creare scenari surreali e tuttavia, era ugualmente capace di fare un ritratto splendido senza alcun artificio, usando solo le luci e la sua innata abilità persuasiva per immortalare i soggetti nelle loro pose naturali e, di solito, adulatorie. Per le fotografie di moda per Vogue, Beaton inventò scenari raffinati per gli elegantissimi abiti che appaiono nella rivista. Rigide, drammatiche scene per vestiti importanti di Schiapparelli o Charles James; sfondi capricciosi per abiti romantici, fotogrammi di un racconto il cui svolgimento era libero arbitrio del lettore. Del 1937 il reportage sul Marocco, con immagini di interni di case malfamate come quella con due figure, una composizione quasi pittorica con caratteristiche di spazio e di prospettiva che fanno pensare ad un interno di Vermeer. Lo scoppio della guerra del 1939 segnò l’inizio di una nuova fase nella sua carriera, rinunciando al lato più frivolo che aveva caratterizzato gran parte della sua produzione artistica per dedicarsi con passione al nuovo incarico di fotografo ufficiale di guerra alle dipendenze del Ministero dell’Informazione. In questa veste documentò i danni prodotti dai bombardamenti su Londra e le attività dela RAF nelle sue basi sparse nel paese: poi si recò al fronte in Nord Africa, dove seguì la guerra nel deserto e successivamente in Estremo Oriente. Alcune di queste immagini sono diventate giustamente famose: quella della bambina ferita in un letto d’ospedale che venne pubblicata sulla copertina di Life e, si dice, fu determinante nel convincere l’opinione pubblica americana della necessità di scendere in guerra; le eleganti, tormentate astrazioni realizzate tra i resti di carri armati nel deserto o tra le rovine di case crollate sotto le bombe a Tobruk; la terrificante tempesta di sabbia, da cui un soldato tenta di salvarsi correndo disperatamente verso la sua tenda. Tornando alla vita civile, Beaton riprese le fila della sua carriera, viaggiando, fotografando, progettando. Nell’immediato dopoguerra le sue immagine più sublimi tra cui lo sflogorante studio del ’48, ispirato a Watteau, una composizione complessa con otto modelle in abiti da sera di Charles James, considerato ancora oggi un capolavoro del genere. E’ nell’estate del 1949 che Beaton ritorna in Marocco, precisamente a Tangeri, per incontrare Truman Capote.

Nell’autobiografia di Paul Bowles “Senza mai fermarsi” (Le Comete -Feltrinelli) così lo scrittore descrive quel periodo: “Nell’estate del’49 non si era ancora trasferito (Truman Capote)  nella sua casa di Jemaa el Mokra sulla Montagna, e divideva la Guinnes House de Marshan con Cecil Beaton. Truman non trovava la città del tutto di suo gusto, ma rimase lo stesso tutta l’estate al Farhar con Jane e me perchè c’era Cecil“.  Paul Bowles ricorda ancora nella sua  autobiografia che Beaton resto’ per tutta l’estate a Tangeri e che in occasione di un party che si tenne sulla spiaggia, alle Grotte di Ercole, fu proprio il fotografo a decorare una delle grotte, dove vennero serviti per tutta la notte champagne e hascisc. Tra gli ospiti Barbara Hutton, Gertrude Stern, Burroughs e molti altri importanti artisti. Quella particolare serata fu sottolineta da una orchestra andalusa che rimaneva parzialmente nascosta dalle rocce e dalle lanterne, mentre sulla spiaggia gruppi di invitati giacevano su enormi cuscini, sotto la luce della luna. A partire dal 1957 Beaton dedicò tutte le sue energie al teatro e al cinema mentre gli anni sessanta assistevano ad un grande fermento di giovani talenti e artisti, ai quali si legò con passione. I Rolling Stones, David Hockney, Peter Balke, David Bailey, Rudolph Nureyev e Andy Wharol con il suo entourage,  sono solo alcuni fra i tanti amici e modelli di cui si circondò.  Nei “Diari di Cecil Beaton – 1965/1969” Beaton descrive con dettagli succulenti le sue notti bollenti con i giovanissimi Rolling Stones all’Hôtel El Minzah di Tangeri nel 1967. Nel 1974 Beaton rimase semiparalizzato e questo segno’ la fine ufficiale della sua carriera fotografia anche se il suo splendido servizio sulle collezioni A/I 1979 per Vogue Francia fu un ulteriore prova della sua volontà di non arrendersi mai. Truman Capote, nell’introduzione a “The Best of Beaton” rende omaggio all’occhio del fotografo con parole che sono un epitaffio: “La sua intelligenza visiva è genio (…) Ascoltare Beaton descrivere in termini visivi una persona, un posto o un paesaggio è come assistere ad una rappresentazione , divertente o brutale o bellissima, ma sempre senza ombra di dubbio brillante. (…)  quello che rende l’opera di Beaton unica e la sua straordinaria intelligenza e comprensione visiva che permea le sue foto“.

Fonte: My Amazighen

“Mind your step” di Erik Johansson

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Le illusioni ottiche sono sempre state una mia grande passione, quando queste si uniscono all’architettura non possono che attirare completamente la mia attenzione.
Ecco quindi l’opera di Erik Johansson che è in questi giorno nel centro di Stoccolma; la piazza in questione (Sergels Torg) ha già una pavimentazione molto particolare che ha aiutato senz’altro il fotografo nel creare questa illusione. Il risultato è sicuramente apprezzabile.

Fonte: Linea Di Sezione

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MIA 2011, elogio alla fotografia

Dopo averne parlato qualche giorno prima dell’inaugurazione (post del 12 maggio), sabato ho visitato questa importante fiera rivolta alla fotografia e alla video arte, rimanendone positivamente affascinato e interessato.

5 padiglioni con quasi 200 artisti provenienti da tutto il mondo, centinaia e centinaia di immagini e stampe di diverso formato, in grado di stimolare vista e immaginazione.

Il comitato scientifico ha svolto un lavoro di selezione delle opere eccellente, variando molto nella scelta della tecnica e dei soggetti. Tra i primi che mi hanno colpito, il 40enne Christian Tagliavini, italo-svizzero, capace di rivelare con i propri ritratti l’atmosfera di un passato remoto e affascinante. Le sue immagini mi hanno proiettato nelle sale della National Gallery di Londra dedicate alla pittura fiamminga del Quattro-Cinquecento, in cui i quadri sono così vivi, reali e in grado di indagare anche il minimo dettaglio.

Francesco Nonnino, quasi un Magritte della fotografia, un pò inquietante nel proporci i suoi pensieri, dove nella serie “Come se la vergogna”, i volti dei protagonisti non sono presi in considerazione (da cui il titolo), notiamo “solo” mani e piedi, nell’atto di compiere gesti particolari e ben caratterizzati, come a sottolineare i moti esteriori e non quelli dell’anima.

Abbandono per un attimo la fotografia e mi avvicino alla video arte di Bruno Sorlini. Immagini frantumate, discostate, rubate alla televisione e “mescolate” alla fotografia e alla musica. Visioni in movimento e fluttuanti dovute ad un particolare montaggio “non sincronizzato” e fatto di interferenze, risultato: un mondo in continuo divenire e ricco di sperimentazioni visive.

Rivivo le atmosfere un pò punk-londinesi nella serie “Contaminazioni” di Stefania Beretta, dove l’artista coglie in alcuni lavori dei writers una sorta di protesta sociale e di rottura con il sistema. Angoli, vicoli, strade poco battute diventano luoghi in cui ricercare l’essenza vera della quotidianità. Il grigiore dei muri e le pozzanghere d’acqua si trasformano in cornice ideale e simbolica per queste fotografie, in apparenza così prive di sentimento e spirito, ma in grado, invece, di dare voce e forza alle “minoranze periferiche”. La sua è una ricerca antropologica, priva di ogni banalità e improvvisazione, capace di smascherare l’ovvio e far riemergere dal substrato quella conoscenza che molti vorrebbero affondare.

Dalla veridicità britannica alla contaminazione tra realtà e fantasia della serie “Tokyo Plastic” di Massi Ninni. Qui le immagini sono caratterizzate da zone fortemente nitide e illuminate, contrapposte a sfondi appena percepibili, quasi sfuocati. Il risultato è quello di avere una fotografia che è appunto combinazione di realtà e fantasia. Una tecnica particolare di lavorazione che lo conduce a esiti espressivi in cui il mondo rappresentato appare come un grande giocattolo, perchè indagato con gli occhi di un bambino.

Significative del mutare del nostro abitare sono i light box di Raffaella Mariniello, straordinari nel riconsegnare alle nostre città quella dignità perduta a causa della cementificazione e del consumismo “a tutti i costi”. Vedute colte tra la realtà e la fantasia, tra il surreale e il metafisico, dove la luce diviene la carta d’identità dei luoghi rappresentati.

Fonte: Noisymag


										

“Sale nero” di Stefano Pensotti, Andrea Semplici e Marco Aime, FBE Edizioni

SALE NERO

Autore: Stefano Pensotti, Andrea Semplici, Marco Aime
Collana: Le caravelle
Pagine: 160
Formato: 24×22
Prezzo: 32,00 €
ISBN: 978-88-89160-93-0

In breve:
Taudenni e Ahmed Ela: due “non luoghi” africani, il primo in Mali il secondo nella Dancalia Etiope, sono un chiaro esempio di quelle società “diversamente sviluppate” dove il modello è ancora quello della cultura materiale. Per entrambi è grande l’importanza che continua ad avere il commercio del sale, l’uso dello stesso per gli scambi commerciali è ancora ampiamente diffuso.
Il libro racconta con testi e fotografie l’ambiente “umano e geografico” che le carovane attraversano: comunità, culture, ambienti naturali.
Mette in rilievo le comunità che vivono di questa economia, i rapporti che si intrecciano, le strutture sociali e parentali delle popolazioni, l’esperienza umana. Chi sono questi uomini, quale la loro esperienza?

Fonte: FBE Edizioni

“Faceless”, di Claudio Cricca, Damiani Editore

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“Scattare una foto è facile, scattare una foto in faccia ad una persona è difficile, scattare una foto in faccia a chi soffre… è contro natura.Ho dovuto attraversare un processo di trasformazione interiore per poter controllare determinate emozioni.” Claudio Cricca.

Seppure ogni genere di fotografia conserva una sua dignità, è innegabile l’esistenza di generi emotivamente più difficili e coinvolgenti: la fotografia sociale, quella di guerra, determinata fotografia introspettiva, hanno un taglio che non può non lasciare il segno nel suo fruitore e ancor prima nel suo autore. Non fa eccezione Cricca, che con il progetto Faceless affronta un intenso viaggio all’interno degli OPG ( Ospedali Psichiatrici Giudiziari), una strada intrapresa dal fotografo certamente non facile, di cui già nell’introduzione non nasconde le difficoltà nel rapportarsi con carcerati così particolari.

Nonostante un’opinione pubblica schierata contro i manicomi, piaga a cui ha posto fine la legge Basaglia, vige un colpevole silenzio su queste strutture, che pur di natura in diversa, mostrano problematiche comuni a quelle dei manicomi: stiamo parlando di realtà molto più vicine a carceri da terzo mondo che ospedali veri e propri, luoghi dove la dignità è offesa e la desolazione è diffusa, dove è mancato la giusta attenzione da parte delle istituzioni; basti pensare a questo passaggio del libro: Gli infermieri, ma soprattutto i poliziotti, sono le figure di riferimento. Non hanno nessuna preparazione fornita dallo Stato. Il tutto è lasciato al buon senso ed al lato umano dei singoli individui. E ancora: questi luoghi rappresentano il capolinea della società, qui la gente vive tra deliri ed allucinazioni, ognuno con la propria storia di violenza e umiliazione.
Non è dunque un caso che una commissione parlamentare abbia affrontato ultimamente la cosa, divulgando un video agghiacciante, diretto, crudo. Di altro stampo Faceless, non solo per il supporto fisico differente, ma per la capacità di trasmettere la giusta tensione senza abusare dei pazzi. È un reportage in bianco e nero, che attraverso giochi di luci e ombre, riflessi su specchietti e pozzanghere, gestualità e dettagli dei soggetti, in una prospettiva quasi da “prima persona”, porta all’interno degli OPG. Sfioriamo passo dopo passo quei muri scrostati, camminando lungo i corridoi o nei giardini all’interno delle mura di cinta. L’obiettivo fotografico diventa il nostro punto di vista, le nostre dita lambiscono le sbarre, mentre respiriamo noi stessi il fumo delle tante sigarette che avvolgono volti di guardie e carcerati. Tra le mura c’è spuntano gatti, foto di donne nude da una parte e santini disposti in maniera da formare croci dall‘altra. Il nostro sguardo incrocia quello di un uomo che tenta di sbucare dalle sbarre, ma non vi riesce, ne rimane dietro, costringendoci a fissare i suoi occhi puntati su di noi, l’unica parte del corpo realmente esposta, gli occhi, lo specchio dell‘anima. Poco più avanti un altro tenta lo stesso gesto, sbuca dai tubi in acciaio con testa e mani, la posizione che assume è una via di mezzo tra un cristo in croce, ed un condannato a morte per mezzo della ghigliottina: a guardare bene sembra semplicemente un segno di resa.

Sin dall’inizio del progetto, ho espressamente deciso di rendere i ricoverati pressoché irriconoscibili..per tutte le ragioni esposte mi sono impegnato in questi anni a documentare la realtà degli OPG, visitanto tutti e cinque gli istituti esistenti in Italia che dipendono dal Ministero della Giustizia. Per le stesse motivazioni ho intitolato il progetto: Faceless, senza volto.

Le immagini spesso sono confuse, mosse, tempi normalmente inappropriati per fissare degli uomini in movimento, una licenza poetica che in questo caso rende l’alta inquietudine, veicolando in uno stato emotivo ben preciso l’osservatore, sensibilizzato così ad una questione per lo più taciuta e non di rado messa da parte con un “se ha fatto del male bisogna pur metterlo in carcere”, secondo una logica che non tiene conto di troppi dettagli. Foto che creano un’empatia nei confronti della triste esistenza che devono affrontare questi individui, persone che si ritrovano quasi sempre più in uno stato di incoscienza: quando un ricoverato ha un momento di lucidità e/o consapevolezza, soffre enormemente, perché sa di pagare per una colpa che non gli è stata riconosciuta, mi dice un ricoverato. Non è raro che, in uno di questi stati di consapevolezza, un ricoverato tenti il suicidio.

Non solo storie sbagliate si trovano nelle pagine del libro, che regala anche la rinascita di Fabrizio. Innamorato del calcio, a diciassette anni vede i suoi sogni andare in fumo per un brutto infortunio. Da li il passo verso l’autodistruzione è breve: la droga per non sentire il dolore fisico e i brutti pensieri, e i furti per garantire questo status. Lo stesso Fabrizio parla del suo percorso verso la “normalità“: nella malattia migliori, mi sento più disponibile nei confronti degli altri e dei loro problemi. Ogni giorno di vita in più, è un regalo!

Se si pensa al fatto che tanti finiscono per vivere un ergastolo bianco, il fatto che oggi Fabrizio sia un uomo libero, con un lavoro, una compagna, una casa, dovrebbe far comprendere quanto si può fare per ridare speranza, vita e dignità a chiunque affronti il buio della malattia. Non può che essere un contributo Faceless ad un cambiamento necessario, un piccolo ma prezioso contributo, per sensibilizzare, per aprire gli occhi, per farlo sfiorando la corda emotiva più nobile delle persone, quella che realmente può generare un miglioramento della società.

Sito del fotografo Claudio Cricca http://www.claudiocricca.com/

Fonte: Oubliettemagazine

Fotomanipolazioni di Leszek Bujnowski

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Leszek Bujnowski è un fotografo polacco, che pratica il filtraggio digitale e la manipolazione fotografica. Codesta selezione espone il suo stile esclusivo, misterioso, inquietante, oscuro, spesso surreale e freddo, ma  di una tendenziale strana bellezza. Un portfolio molto bello per completare l’universo paragonabile a Jonathan Andrea, Jim Kazanjian e Filip Dujardin.

by Marius Creati

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“La fotografia” di Ugo Mulas, Einaudi

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Può darsi che alla base di queste mie divagazioni ci sia quel bisogno di chiarire il proprio gioco, così tipico degli autodidatti, che essendo partiti al buio, vogliono mettere tutto in chiaro, e conservano rispetto al mestiere conquistato giono dopo giorno un certo candore e molto entusiasmo.

Ugo Mulas

Per comprendere al meglio un autore nulla di meglio che osservarne le opere, leggerne i pensieri. Nulla di diverso si fa davanti ad un’icona della fotografia come Ugo Mulas, in questo caso davanti al libro La fotografia e in particolare la sezione riguardante il lavoro con i vari artisti, prettamente americani. Com’è ovvio, essendo un fotografo l’autore del libro, si tratta di un libro fotografico, ma non solo. È un libro fatto di parole, tante, di pensieri che svelano la personalità di Mulas, rendendo così più chiaro il suo stile e più semplice la lettura critica delle opere.

La prima considerazione che mi viene in mente è che tra le righe vien fuori tanta sincerità: sincerità nel raccontare i dubbi riguardo l’atteggiamento da tenere durante i lavori, il rivalutare le proprie scelte sino a modificarle; la sincerità nell’ammettere la delusone per certi risultati ottenuti non all’altezza delle aspettative, come nel lavoro su Calderi; la sincerità nello spiegare come nasce la foto della mano di Lucio Fontana, che pare portare a compimento l’ennesimo taglio su tela, ammettendo candidamente la scelta a tavolino dello scatto, utilizzando un’opera precedentemente compiuta.

Seguendo il filo di questi pensieri si perde quasi interesse per le foto, volgendo l’attenzione ai suoi racconti, scritti in uno stile che non è proprio del giornalismo, ma neanche quello di un personaggio che vuole autocelebrarsi. In poche parole, nessun onanismo, ma una narrazione dei fatti, del perché parte in America, delle amicizie coltivate strada facendo. È il 1964, dieci anni dopo il suo primo vero lavoro alla Biennale di Venezia Mulas parte in America, negli States, non per lavoro ma: “per una mia necessità, perché la nessuno mi aveva mandato ( ) più stordito che convinto, poi mi sono entusiasmato, perché non si trattava soltanto di prendere contatto con una certa pittura, quanto di entrare nel mondo dei pittori..di essere testimone () nel momento in cui capitava”. L’obiettivo era semplice: “essere un testimone, non farsi influenzare dall‘affetto per i soggetti“; ma non andò proprio così, tant‘è che nell‘introduzione si può leggere: “mi rendo conto che le fotografie scattate in America sono una presa di coscienza e non una registrazione, una presa di coscienza come lo è una qualsiasi operazione conoscitiva”.

Così già nella prima parte dell’opera s’intuisce quali binari seguirà il libro. Dalle parole traspare un atteggiamento quasi amatoriale, moti di stupore di fronte a gesti e abitudini degli artisti, ragionamenti spesso introspettivi, delle volte anche lacunosi, non dunque un esercizio di stile. Lentamente si delinea l’aspetto del lavoro riguardante gli artisti: si hanno una serie di foto che non sono totalmente documentariste ne totalmente artistiche, ma mirano semplicemente a cogliere l’elemento distintivo di ogni soggetto, ciò che lo caratterizza e lo rende unico. Ragion per cui, per rappresentare Newman, sceglie di evidenziarne un dettaglio di un quadro, che può apparire se letto superficialmente fuori luogo e poco di poco conto, ovvero una porzione che riporta firma e data di inizio-fine lavoro: un dettaglio di fatto significativo ed esaustivo , che mostra la meticolosità adottata dal pittore.

Ma non solo, queste scelte sono spesso lo spunto per piccole riflessioni, come quella riguardante Johns, ritratto mentre con una mano dipinge una cartina geo-politica degli Usa e nell’altra una cartina vera e propria; un contrasto che scaturisce da due elementi (cartina dipinta e cartina vera e propria) che Mulas così commenta: “l‘apparente rifiuto della fantasia, per cui l‘oggetto che sta dipingendo è da lui verificato di continuo, e, allo stesso tempo, come il quadro che sta dipingendo sia un‘altra cosa da ciò su cui la verifica avviene”; una contraddizione che mostra ulteriormente come un’artista può assumere un metodo rigoroso nonostante il risultato finale non lo dia a vedere.

Sono frequenti queste considerazioni, la constatazione di come ciò che si associa alla fantasia e spesso al gioco, cioè l’arte, sia frutto di un lavoro non di rado fortemente disciplinato. Perfino in Warhol è presente in qualche modo tale elemento. Il suo studio è descritto come una grande sala, un paese dei balocchi in cui muovono i loro passi i personaggi più disparati, un luogo dove si entra senza bussare e dove chiunque sviluppa opere e progetti di diversa natura. Il tutto soltanto all’apparenza alla rinfusa, senza nesso, senza logica, ma il filo è mosso, secondo Mulas, dallo stesso Warhol, all’insaputa di chi entra li. Un’influenza che sente lo stesso Mulas, un senso di responsabilità che nasce proprio di fronte alla più completa disponibilità del maestro della pop-art alle sue richieste.

Voler dunque comprendere il soggetto pare il vero interesse, conoscerlo, riportando la scoperta dentro lo scatto. Manca così l’egocentrismo di chi vuole utilizzare il soggetto amò di manichino, come un soggetto-oggetto senza personalità. Al contrario è l’intimità dell’anima che viene colta da Mulas, o almeno questo è l’obiettivo. Vien da se che questo non è mai stato e mai sarà cosa facile, tant’è che non gli è stato sempre possibile: troppo difficile se non impossibile delle volte non far pesare la propria presenza.

Alcune considerazioni sulla fotografia stessa risultano interessanti: “ davanti alla fotografia ci si trova spesso davanti ad un pensiero senza linguaggio, inespresso” così che uno stesso scatto sia utilizzato e/o interpretato in diversi modi; si serve qui dell’etologo Kohler: “Anche usando le parole l‘immagine del pensiero può solo trasparire non mostrarsi nella sua medesimezza”, aggiungendo che, dopo aver osservato in diversi modi il soggetto e aver scelto lo scatto, il fotografo “non avrà che espresso una parte del sul suo pensiero”; dentro “lo studio di un pittore, sento di dover lasciare fuori le mie idee precostituite() lavorare..su ciò che l‘artista mi mostra.

E quando mi scordo di questo è la macchina che mi chiama alla realtà; questo è il limite e il vantaggio del fotografo rispetto al critico”. Raccontando l’artista tenta di abbandonare il se per comprendere l’altro, finendo per capire anche se stesso. È chiaro infatti che l’atteggiamento di Mulas è figlio del suo modo di essere, com’è per qualunque fotografo in fin dei conti; così il non voler influenzare la scena è qualcosa di significativo, descrive già una parte di Mulas. Un disegno della personalità dell’autore che trova poi completezza e conferma un po’ in ogni pagina, sia essa scritta o impaginata con una foto. Un osservatore curioso, discreto, delle volte quasi ingenuo in certi ragionamenti, ma privo di quell’egocentrismo solito dell’artista e privo dell’arrivismo del giornalista.

In chiusura una parte della paginetta riguardante Pistoletto, un frammento estrapolato forse in maniera sbagliata dal suo reale contesto e significato, ma capace di riassumere un po’ Ugo Mulas:

Il limite alla mia fotografia, il far sentire dove questa finisce, restituisce ogni cosa al gioco delle parti: altrimenti l’ambiguità sarebbe totale.

Written by Roberto Montis

Fonte: Oubliettemagazine

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