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Archive for the ‘Popoli e Etnie’ Category

Amerindiani, breve excursus sulla civiltà dei nativi americani

July 23, 2017 Leave a comment

Grandi laghi, foreste, praterie, deserti, aspre catene montuose, coste favorevoli alla pesca… è in questi ambienti, generosi o estremi, che ha inizio la storia degli Indiani o Pellerossa, i primi colonizzatori del Nord America. L’appellativo “Indiani” venne loro attribuito da Cristoforo Colombo, erroneamente convinto di essere approdato nelle Indie asiatiche. Amerindi, Amerindiani, abbreviazioni di “American Indians” oppure Nativi americani o “Indios”, se si utilizza la forma spagnola, sono altri nomi con cui i celebri Indiani d’America vengono designati.

Si tratta, in realtà, di un gran numero di gruppi etnici che, pur condividendo alcuni tratti culturali, non sono un insieme omogeneo come si tende erroneamente a pensare, differenziandosi per struttura sociale, lingua, religione, origine geografica all’interno degli attuali Stati Uniti, per usi, costumi e valori. Si calcola che prima della colonizzazione europea le popolazioni indigene del continente americano ammontassero a circa 90 milioni di individui, per la maggior parte concentrati nel Messico e nella regione delle Ande. Durante il Pleistocene, a seguito di periodici abbassamenti delle temperature che causarono il congelamento di gran parte delle acque del globo terrestre, in particolare alle alte latitudini, lo stretto di Bering divenne un ponte naturale di collegamento tra 2 continenti: Asia e America settentrionale. L’ipotesi accolta quasi all’umanità ritiene che gli Indiani discendano da popolazioni asiatiche giunte in Alaska dalla Siberia nord-orientale nel periodo glaciale: gruppi numerosi avrebbero attraversato lo stretto di Bering, allora coperto di ghiacci, in successive ondate migratorie. Alcuni studiosi fanno risalire le migrazioni a 30.000 anni fa, sulla base di studi comparati tra diversi linguaggi ed analisi delle caratteristiche genetich, mentre prove più dirette, basate su ritrovamenti archeologici, si riferiscono ad epoche posteriori, in particolare al 22.000 a.C. per il Canada, al 21.000 a.C. per il Messico e al 18.000 a.C. per il Perù. Il Sud del continente americano è stato raggiunto nel 10.000 a.C.

Se, come sosteneva Kant, non è possibile insegnare la geografia senza la storia o se ancora la geografia può essere definita come storia nello spazio, è giusto ripercorrere le tappe storiche salienti dei Nativi d’America. Era il 12 ottobre 1492 del calendario giuliano (corrispondente al 21 ottobre del nostro calendario gregoriano) quando, sull’isola ribattezzata San Salvador, ebbe luogo l’incontro tra Cristoforo Colombo ed i suoi compagni di viaggio, da una parte, e gli Indiani Taino dall’altra. Colombo sbarcò con i Pinzón, gli inviati reali e alcuni marinai, rendendo possesso dell’isola a nome dei Re di Spagna. A poco a poco gli indigeni, timorosi, incominciarono ad apparire tra la vegetazione. Erano completamente nudi e non conoscevano le armi. Si trattava dei ‘Taínos, della famiglia degli Araucos. Colombo e i suoi cominciarono a chiamarli ‘Indios’, credendo che fossero abitanti dell’India. Se l’incontro tra gli spagnoli e gli indigeni causò la meraviglia dei primi, già abituati alle esplorazioni africane e delle isole oceaniche vicine al vecchio continente, nei secondi dev’esser stato qualcosa di eccezionale e meraviglioso (meraviglioso per poco tempo, dato che poi si convertì in una maledizione mortale!). Gli indios osservarono con stupore le tre enormi “case” che galleggiavano e i loro abitanti bianchi, barbuti, armati e ricoperti di panni e di metalli. Non sapendo scrivere e possedendo una cultura primitiva non potettero trasmettere le loro impressioni su quegli ‘dei’ che venivano dal cielo. Le culture realmente sviluppate si trovavano molto distanti, in Messico e in Perù.

Facciamo un balzo in avanti nel tempo. Nel 1755 Inglesi e Francesi iniziarono una guerra per possedere la valle dell’Ohio, cui presero parte anche gli Indiani: gli Irochesi, alleati agli Inglesi, gli Algonchini, dalla parte dei Francesi. La guerra, chiamata “guerra dei sette anni” terminò nel 1763 con la vittoria degli Inglesi, siglata nel Trattato di Parigi. Nel 1763 il Parlamento concesse ai Nativi il diritto di rimanere sulle terre non ancora cedute, garantendo la tranquillità alle loro popolazioni ma, intorno al 1770, gli Irochesi furono costretti a firmare il Trattato di Stanwick che li obbligava a spostarsi più a ovest e ad abbandonare le terre dove avevano sempre vissuto. I coloni europei si espansero sui territori dei Nativi e, infrangendo il trattato del 1763, scacciarono i Delaware e gli Shawnee, ponendosi contro gli Inglesi che erano favorevoli ad una alleanza con i Nativi. Negli anni successivi, proseguironole guerre fra Inglesi e Americani, alle quali i Nativi presero parte, ma quando nel 1787 nacquero gli Stati Uniti, per tutte le tribù indiane fu l’inizio della fine. Il primo presidente Washington, intraprese una guerra contro gli Indiani che portò alla battaglia di Fallen Timbers, dove gli Indiani subirono una forte sconfitta ad opera dell’esercito americano guidato dal generale Waine, complice il tradimento degli Inglesi che, in un primo tempo, avevano promesso loro aiuto. Nell’agosto del 1795, invece, le tribù Shawnee e Miami furono costrette a firmare il trattato di Greenville con il quale persero circa 60.000 chilometri quadrati del loro territorio. Fu proprio alla luce di questi avvenimenti che Tecumseh, divenuto da giovane capo della tribù Shawnee, iniziò un lungo viaggio in tutto il Nord America, con l’intento di convincere gli altri capi a creare uno stato indiano nel quale riunire tutte le tribù.

La fama espansionistica dell’uomo bianco crebbe sino al 1830, anno in cui il Congresso Americano votò l’ “Indian Removal Act”, col quale numerosissime tribù del sud-est furono costrette a lasciare le loro terre, trasferendosi ad ovest del grande fiume Mississippi. Tra il 1862 e il 1868, nonostante fosse in corso la Guerra di Secessione, il generale Carleton e Kit Carson attaccarono i Navajo che rifiutarono di trasferirsi in una riserva ad est del New Mexico. Dopo anni di lotte, stremata dalla fame e dalla malattia, la tribù accettò il trasferimento. Lo stesso trattamento venne riservato agli Apache, capeggiati da Mangas Coloradas e Cochise. – Nel 1864 i Cheyenne presero d’assalto un treno merci. Il colonnello Chivington, in risposta, attaccò il villaggio di Sand Creek, nonostante gli Indiani esposero la bandiera bianca in segno di resa, senza risparmiare donne e bambini I Sioux, invece, guidati da Nuvola Rossa e da Cavallo Pazzo, per vendicare Sand Creek, attirarono in un’ imboscata un reggimento dell’esercito, uccidendo tutti gli uomini. Nel 1872 furono i Modoc a fuggire da una riserva in cui erano stati confinati assieme ai Klamath con i quali non erano in buoni rapporti. Guidati da Kintpuash (Capitan Jack), raggiunsero le loro terre sui Lava Beds, resistendo a lungo all’inseguimento degli Americani grazie all’astuzia del loro capo e al territorio impervio, fino a che Kintpuash non venne catturato e impiccato.

Il 1876 fu un anno importantissimo nella storia dei Nativi poiché i Sioux di Toro Seduto e Cavallo Pazzo si unirono ai Cheyenne di Due Lune, tenendo una grande cerimonia chiamata “Danza del Sole” sulle rive del fiume Rosebud. Dopo qualche giorno vennero attaccati dalle truppe del generale Crook, ma dopo uno scontro durissimo Cavallo Pazzo e i suoi uomini resistettero e ne uscirono vincenti. Al generale Custer venne successivamente ordinato di andare in avanscoperta, ma egli, senza aspettare i rinforzi, decise di attaccare. Toro Seduto, avvisato dell’arrivo dei soldati, riuscì ad organizzare insieme agli altri capi una difesa che si trasformò in poco tempo in attacco. I soldati di Custer vennero travolti nella famosa battaglia del Little Big Horn, che rappresenta la vittoria più importante nella storia dei Nativi. Nel 1878, dopo la battaglia di Little Big Horn, i Cheyenne e gli Arapaho accettarono di andare a vivere nelle riserve, con la promessa del governo americano di poter fare ritorno alle loro terre qualora la riserva non fosse stata di loro gradimento. Non appena la riserva si rivelò arida e priva di selvaggina da cacciare, i Nativi, guidati da Coltello Spuntato e Piccolo Lupo, iniziarono una fuga per poter tornare nelle loro terre, ottenendo, dopo anni di scontri e numerose perdite di uomini, una riserva nei loro territori. Fra il 1891 e il 1898 tutti i Nativi vennero relegati per sempre nelle riserve, ad eccezione dei Chippewa che diedero origine ad una rivolta, terminata in un bagno di sangue. Dal 1900 in poi nacquero associazioni sensibili ai problemi degli Indiani, volte a salvaguardare la cultura e la vita dei popoli nelle riserve e nel 1934 , con l’Indian Reorganization Act, gli Indiani riuscirono ad ottenere qualche diritto in più e la restituzione di piccola parte dei territori loro sottratti nel corso di decenni di guerre.

Fonte: MeteoWeb

Taxi Fabric, mondo magico della seta di Mumbai

February 9, 2016 Leave a comment

Prendere un taxi nelle grandi metropoli può rivelarsi un’esperienza snervante, contraddistinta da lunghe attese e imbottigliamenti nel traffico. Se in Italia la corsa in taxi è un’occasione normalmente poco ricorrente in altri paesi rientra invece nell’ambito delle consuetudini quotidiane di milioni di persone. È questo il caso della megalopoli indiana di Mumbai le cui strade sono percorse giornalmente da più di 50.000 taxi che, oltre ad offrire un’alternativa economica per il trasporto, rappresentano un’icona della cultura urbana locale. Il classico modello Ambassador dalla siluette arrotondata e dalla livrea nera con tettuccio giallo domina il panorama del tessuto connettivo di Mumbai svolgendo quello che può considerarsi un ruolo vitale per il funzionamento della città. Lo spirito estroso tipicamente indiano ha sempre favorito l’impiego di una fantasiosa oggettistica per personalizzare il cruscotto o il volante di questi veicoli, più recentemente però si è affermata una tendenza che porta alla sublimazione il gusto decorativo e che propone una trasformazione totale degli interni dei taxi mumbaiti. Promotore di questa nuova dimensione del viaggio urbano è un gruppo di artisti che attraverso l’iniziativa chiamata Taxi Fabric vuole valorizzare il talento emergente in India e stabilire un approccio sperimentale col pubblico. Gli interni rivisitati vengono progettati da giovani designers che riproducono nelle loro opere l’atmosfera vibrante e cosmopolita di Mumbai; ognuno di questi lavori è un pezzo unico e racconta una storia originale da cui deriva il nome proprio di ogni singolo taxi-fabric. Può così capitare di fare una corsa sul “Protect Your Magic”, sullo “Stop.Breathe.Feel”, sul “Potpourri Culture” o sullo “Happily Ever After”. Sedili e paratie sono rivestiti con tessuti stampati sui quali compaiono motivi variopinti ispirati alla memoria e alla cultura urbana e sui quali figurano simboli magici e cosmologici della tradizione indiana, monumenti, protagonisti di Bollywood o richiami all’arte popolare e a oggetti di uso quotidiano. La corsa in uno di questi taxi si trasforma dunque in un’intensa esperienza sensoriale in cui l’ambiente interno narra in forma onirica esperienze e sensazioni connesse al paesaggio che scorre all’esterno dei finestrini. Il cliente che si siede in un taxi-fabric viene proiettato nel messaggio dell’artista e avvolto dalla sua visione; per questo motivo molte delle opere realizzate trattano volutamente di temi sociali e hanno l’intento di indurre i passeggeri a riflettere sulla realtà che li circonda. Una serie speciale di taxi-fabric chiamata Social Good, cui appartengono fra gli altri l’“Indian Sign Language”, il “Keep Distance” e lo ”Only for Men”, è stata ideata proprio al fine di sensibilizzare bambini e adulti verso diverse problematiche quali disabilità, educazione o condizione femminile. In breve tempo il progetto si è rivelato valido anche per i proprietari dei veicoli che hanno visto aumentare esponenzialmente le richieste di servizio e le prospettive di guadagno in un contesto che, dato l’alto numero di taxi in circolazione, risulta fortemente competitivo. Al momento sulle strade di Mumbai vi sono circa una ventina di taxi-fabric ma il progetto ha riscosso il meritato successo ed è in rapida espansione includendo anche un’altra icona del trasporto cittadino, i risciò. Nel loro frenetico evolversi i paesaggi urbani offrono sempre nuovi spazi alla creatività e in quest’ambito la Mumbai indiana è sicuramente all’avanguardia offrendo un esempio di come l’espressione artistica possa trovare un dialogo intimo e diretto con la realtà quotidiana dei cittadini.

Fonte: Treccani

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Africa, maschere e simbologie africane

February 25, 2013 Leave a comment

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Sono un grande appassionato di maschere africane e ne posseggo un discreto numero raccolto nel corso degli anni in diversi paesi africani.  Alcune società umane non hanno ignorato le  maschere  e questo accaddè nel momento in cui l’uomo ebbe accesso allo stato della cultura. Dalla Grecia antica all’America antica passando per l’Asia e l’Oceania, le maschere hanno simbolizzato gli dei, incarnato la bellezza, espresso la magnificenza e l’illusione, ma anche la calma, l’ordine e la serenità. Maschere d’iniziazione del Peloponneso, maschere Bugaku Nô del Giappone, maschereBarong di Java, maschere degli Eskirno e degli Indiani d’America, maschere dei Paou Orokolo della Nuova Guinea. Nell’Africa nera, il continente venne celebrato dal debutto del XX° secolo per la ricchezza della sua arte, per la scultura delle maschere e per l’infinita varietà di arte pittorica. Le maschere in questo contesto possono essere considerate come un fenomeno artistico caratterizzato dalla sua ubiquità e diversità di forme e di stili. Si incontrano maschere nelle savane dei paesi sudanesi e dei paesi Bantou come si incontrano nelle foreste del golfo della Guinea o in Congo. Queste regioni ricoprono differenti tipologie di civilizzazione : i Dan, i Vê e gli Akan. E poi ancora le civiltà dei granai con i Dogon, i Senoufo e le civiltà delle città con iMandingo e gli Yoruba. Parliamo di società che possono essere patriarcali o matriarcali, organizzate in Stati o sulla semplice base del villaggio. Quello che stupisce in questa presenza di maschere è l’indifferenza alle variazioni di ordine geografico o culturale, sociale o politico. Esistono tuttavia delle regioni privilegiate in questa distribuzione geografica e socio-culturale delle maschere in Africa.
Il Sudan occidentale e principalmente i popoli sul delta del Niger (Bambara, Dogon, Mossi, Bobo)
Le regioni al Sud e al Sud-Est del Congo (Congo, Zaire, Angola)
Le regioni costiere da Casamance sino al Congo, in particolare i popoli del massiccioguineo-liberiano, della Costa d’Avorio, della Nigeria, del Cameroun e del Gabon.
Gli alti plateau situati tra il lago Nyassa e l’Oceano Indiano
Un centro importante di maschere si trova nel Sudan centrale, l’Oubangui Chari(l’attuale Repubblica Centroafricana) e il nord del Congo. Infine, si presume che lesocietà politiche organizzate in Stato fortemente centralizzato siano meno ricche in maschere che quelle organizzate in califfati e comunità pastorali. Le forme sono variegate e di taglie e materiali diversificati ma con una preponderanza manifesta del legno. Esiste una profusione di forme ma tre tendenze principali sono le più importanti. La prima riguarda le maschere a forma animale o maschere zoomorfe e sono la rappresentazione dei caratteri dominanti degli animali rappresentati, come le maschere Boli dei Bambara che raffigurano leoni, iene e antilopi. Da notare l’importanza delle Tyi-Wara, maschere di antilopi che conducono le danze durante i grandi avvenimenti. Nel contempo, la danza mascherata dei Douro e dei Baoulé, è una vera rassegna di maschere zoomorfe dove appaiaono teste di cani, gazzelle e elefanti. Le maschere a figure umane o maschere antropomorfe rappresentano sia uomini che donne. Presso i Dogon, le maschere umane incarnano gli avi, i cacciatori e i maghi. Esistono anche tra i Mossi delle maschere con figure femminili accostate a maschere con figure maschili. E ancora maschere antropomorfe presso altri popoli come i Dan e iGouro, dove i tratti sono finemente cesellati. Chi non ricorda la celebre Die-La Lou–Zaouli, una delle più belle attrazioni danzanti ivoriane. Le maschere antropomorfeassociano i tratti umani  a quelli animali, ma con una preponderanza di volti umani. I visi maschili comprendono alcuni ornamenti sovente periferici a carattere animale (corna, piume, denti) che servono a sottolineare le caratteristiche funzionali della maschera. Le maschere Zamblé  dei Gouro ne sono un esempio. Per quanto riguarda le maschere Wé (Guéré e Wobé) questi ornamenti sono composti con raffinata ricerca estetica e rappresentano  un grado molto alto d’espressione simbolica. Attraverso le forme che si donano alla materia, le culture delle maschere cercano di rendere visibile l’invisibile ed esprimere delle idee. L’unione degli elementi naturali e astratti, degli elementi inpressionisti e degli elementi surrealisti, si innesta in una sorgente di identità nuova : la maschera appunto. Colui che indossa una maschera con una testa potente, un occhio guardingo, corna di bufalo, gola di coccodrillo, esercita sicuramente una impressione di forza e di coraggio. L’equilibrio statico, la simmetria e la frontalità devono evocare la grandezza sovrannaturale delle maschere.  Due altri stili appaiono chiari attraverso le forme : uno stile cubista, dove dominano le forme geometriche, caratteristica delle maschere DogonBambara, Bobo  (Guéré in particolare) e uno stile naturalista dove domina al contrario la rappresentazione del reale visibile, caso delle maschere dei Gouro, dei Baoulé e dei popoli del Bénin. Ma tra questi due orientamenti esistono degli stili intermedi che si incontrano tra le sculture delle maschere Dan e Sénouto, per citare alcuni esempi. In ragione delle zone geografiche e culturali che la compongono e degli scambi che la storia ha permesso, la Costa d’Avorio occupa un posto importante nelle sculture delle maschere africane. L’area culturale della costa ovest-africana  sino all’imbocco forestale guineo-liberianoapporta in Costa d’Avorio,  con i Dan e i Wé, le costruzioni naturaliste  e cubistecaratteristiche di queste zone. Questa influenza si sviluppa nell’ovest e nell’est, attraverso la Costa d’Avorio, dai Gouro, parenti prossimi dei Dan, e dai Niaboua, Bakoué, Néyo, Bété e Godié, culturalmente apparentati ai Wé. Infine la scultura delle maschere Baoulé partecipa alle tecniche artistiche dell’area atlantica dell’Est (Akan, AdjaYoruba) e agli stili sénoufo e gouro, creando una sintesi di concetti dell’Ovest, dell’Est e del Nord  delle sotto regioni dell’Africa occidentale. La posizione geografica centrale del popolo baoulé, appare come un approccio di spiegazioni di questa impronta culturale. Tutto questo comporta una ricchezza culturale importante per la Costa d’Avorio che risulta, in Africa occidentale, una delle regioni privilegiate delle maschere. In apparenza, e per i profani, la maschera è un fenomeno artistico e tecnico che puo’ significare, attraverso l’ubiquità di queste sculture in Africa nera, unaunità d’espressione culturale. William Fagg scrive a proposito : ”è per l’arte che noi possiamo acquisire la vista più penetrante nella cultura di un popolo  e in particolare dei popoli africani. Le sculture quindi giocano un ruolo di testimoni, rivelatrici della civilizzazione di un popolo. Le maschere intervengono nelle cerimonie d’iniziazione, nei riti legati alla nascita e nelle cerimonie funebri: possono anche dirigere dei riti d’adorazione e in questo contesto strettamente religioso, le maschere servono come protezione contro gli spiriti melefici, ma giocano altresi’ un ruolo di intermediazione tra gli dei e gli uomini. Le maschere regolano poi, in ultimo ricorso, i litigi, i problemi della pace e delle guerre, e a quel punto le loro decisioni sono irrevocabili : sul piano strettamente politico le maschere donano delle direttive ai responsabili politici per la gestione comunitaria.
Infine assicurano la sicurezza della comunità organizzando la sicurezza del villaggio e sono ancora le maschere che si fanno carico dell’informazione in caso di bisogno. Le maschere africane si differenziano secondo  la loro utilizzazione e per l’importanza delruolo che devono assumere. Questi ruoli si spiegano con le differenze sostanziali delle loro forme : taglia, figura, disegno. Presso i Sénoufo, per esempio, esistono due grandi classi di maschere in rapporto alle forme, e otto classi in rapporto all’utilizzazione, oltre alle maschere d’iniziazione (poro) che sono di grande taglia e con figure animali (maschere che svolgono il compito di educare e formare gli uomini, maschere con funzioni positive). Al contrario, altre maschere sono destinate alletecniche magiche aggressive o difensive (quest’ultime sono di piccolo taglia e hanno caratteristiche umane). Come regola generale, le grandi maschere comandano le piccole, decidono sulla uscita annuale o periodica di tutte le maschere, arrivando perultime sulla scena nei giorni della cerimonia. Un protocollo insomma, che ricorda le grandi parate politiche dell’Africa antica e quella attuale. La funzione più significativa delle maschere rimane quella del mantenimento dell’ordine. Le maschere si fanno carico di mantenere l’ordine del mondo, della società e delle famiglie e intervengono in effetti per regolare l’ordine cosmico disturbato dai disordini che attentano alle leggi del mondo. In caso di calamità naturali o catastrofi  umane, le maschere ordinano dei sacrifici per riparare gli effetti delle trasgressioni che hanno causato questi orrori. Devono poi vegliare sulla rettitudine delle persone e mantenere il rispetto delleinterdizioni che assicurano la struttura delle famiglie e dei villaggi. Infine le maschere della saggezza o “grandi maschere” decidono in ultimo sugli affari che la giustizia profana non puo’ regolare. In conclusione, per mantenere l’ordine nella società e nel mondo, gli uomini hanno sempre  avuto bisogno dell’autorità degli dei, degli spiriti e degli ancestri. Le maschere incarnano i depositari naturali e sovrannaturali dell’autorità. Il funzionamento quindi come ricettacolo del sacro e di conseguenza come fondamenta della legge, sorgente dell’ordine e della potenza. Le maschere appaiono dunque, in ultima analisi, come degli strumenti ideologici della società tradizionale africana che assicurano la conservazione dell’ordine naturale tramite la ricerca dell’equilibrio e la lotta contro l’anarchia. Esprimono poi la situazione delle società che non hanno cercato di distruggere  la continuità primordiale tra il mondo degli uomini e quello degli dei, tra il naturale e il sovrannaturale.  La nuova economia di mercato mondiale, l’urbanizzazione rapida e generalizzata che svuota le campagne, la nuova amministrazione delle collettività rurali, insomma tutti i cambiamenti in corso sono delle minacce che pesano sulla vita delle maschere. Due pericoli appaiono chiari oggi : l’autodistruzione e la distruzione esterna. L’autodistruzione è causata dai commercianti d’arte che sottomettono gli artigiani a delle pressioni irresistibili (denaro) e la distruzione esterna è dovuta alle influenze religiose importate (islam, cristianesimo), con l’assenza criticabile di una politica culturale suscettibile di bloccare la fuga all’estero di importanti strutture materialidella civilizzazione delle maschere. Prossimamente scriverò sulle maschere nelle singole etnie.

Paolo Pautasso

Fonte: My Amazighen

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Ayoreo-Totobiegosode

June 18, 2012 Leave a comment

Ruspe nel cuore della terra degli Indiani isolati.

Gli Indiani Ayoreo-Totobiegosode vivono nel Chaco, una vasta regione di fitta foresta arida che si estende dal Paraguay verso Bolivia e Argentina.
Il loro territorio è stato acquistato da speculatori e allevatori che lo stanno rapidamente deforestando.
Gli Ayoreo sono suddivisi in numerosi sottogruppi diversi. I più isolati sono conosciuti con il nome di Totobiegosode, ovvero “il popolo del luogo dei cinghiali”.
Molti di loro sono stati costretti a uscire dalla foresta sin dal 1969, ma alcuni continuano a evitare ogni contatto con l’esterno e a vivere in isolamento.
Il primo contatto regolare con il popolo dei bianchi è avvenuto tra gli anni quaranta e cinquanta, quando gli agricoltori mennoniti si stabilirono in colonie sulle loro terre. Gli Ayoreo si opposero all’invasione e ci furono morti da entrambe le parti.
Nel 1979 e nel 1986 i missionari fondamentalisti americani della New Tribe Mission parteciparono a delle autentiche “cacce all’uomo” a seguito delle quali grandi gruppi di Totobiegosode furono costretti con la forza ad abbandonare la foresta.
Molti Ayoreo furono uccisi durante gli scontri, altri morirono in seguito, di malattie verso cui non avevano difese immunitarie.
Gli Ayoreo sono suddivisi in numerosi sottogruppi diversi. I più isolati sono conosciuti con il nome di Totobiegosode, ovvero “il popolo del luogo dei cinghiali”.
Molti di loro sono stati costretti a uscire dalla foresta sin dal 1969, ma alcuni continuano a evitare ogni contatto con l’esterno e a vivere in isolamento.
Il primo contatto regolare con il popolo dei bianchi è avvenuto tra gli anni quaranta e cinquanta, quando gli agricoltori mennoniti si stabilirono in colonie sulle loro terre. Gli Ayoreo si opposero all’invasione e ci furono morti da entrambe le parti.
Nel 1979 e nel 1986 i missionari fondamentalisti americani della New Tribe Mission parteciparono a delle autentiche “cacce all’uomo” a seguito delle quali grandi gruppi di Totobiegosode furono costretti con la forza ad abbandonare la foresta.
Molti Ayoreo furono uccisi durante gli scontri, altri morirono in seguito, di malattie verso cui non avevano difese immunitarie.
I Totobiegosode vivono in piccole comunità. Coltivano zucche, fagioli e meloni nel terreno sabbioso e cacciano nella foresta. Apprezzano in modo particolare le tartarughe e i cinghiali, così come il miele, che si trova in abbondanza.
Le famiglie – quattro o cinque per gruppo – vivono insieme in case comunitarie, nella foresta. Un palo di legno centrale sostiene una struttura a volta realizzata con piccoli rami d’albero ricoperti di fango secco.
Ogni famiglia ha il suo focolare all’esterno dell’abitazione e si dorme al coperto solo se piove.
Al loro rito più importante hanno dato il nome diasojna, il succiacapre; il primo canto dell’uccello annunciava l’arrivo della stagione delle piogge e dava inizio a un mese di celebrazioni e festività.
Gli Ayoreo che oggi vivono in comunità stanziali abitano in capanne monofamigliari. Rimasti senza terra, non hanno altra scelta che lavorare come braccianti sottopagati negli allevamenti di bestiame che hanno occupato la maggior parte del loro territorio.
I missionari evangelici della New Tribe Mission hanno una base vicino alle loro comunità ed esercitano un’enorme influenza sulle loro vite quotidiane. A causa loro, l’asojna e molte altre celebrazioni sono state abolite.
Quasi tutta la terra degli Ayoreo si trova oggi nelle mani di latifondisti che assumono squadre di operai per abbattere gli alberi preziosi e poi introdurre il bestiame sulla terra disboscata. Molti dei nuovi proprietari terrieri sono Mennoniti, ma gran parte della terra degli Ayoreo è stata acquistata da facoltosi paraguaiani e da commercianti di bestiame brasiliani.
Gli Indiani rivendicano il riconoscimento di una sola porzione del loro territorio. Senza la foresta non possono nutrirsi né sostentarsi, e sono anche profondamente preoccupati per i loro parenti incontattati che ancora vi abitano.
Quest’area avrebbe dovuto essere assegnata agli Indiani anni fa, dato che sia la legislazione paraguaiana sia la Costituzione del paese riconoscono il diritto degli Indiani alla proprietà delle terre tradizionali.
Tuttavia, i potenti latifondisti sono riusciti a fermare la legge ad ogni nuovo sviluppo, e hanno già spianato illegalmente una parte della foresta.
Nel cuore del territorio indiano c’è un appezzamento di 78.000 ettari di proprietà della compagnia brasiliana Yaguarete Porá. Un’ampia parte della foresta è già disboscata e si tratta di un’area molto vicina al luogo in cui sono stati recentemente avvistati gruppi di Ayoreo isolati.
In risposta alla pubblica indignazione, la compagnia ha annunciato il progetto di convertire parte della sua terra in una “riserva naturale” ma, di fatto, l’idea è quella di distruggere circa due terzi della foresta.

Fonte: Survival