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ITALIA, ultimo volo del dirigibile italiano alla conquista del Polo Nord

November 24, 2018 Leave a comment

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Il secolo dei dirigibili è stato breve. La costruzione in serie di questi oggetti a forma di sigaro che galleggiavano fieri nel cielo è cominciata alla fine del XIX secolo e già nel 1937, dopo la catastrofe dell’Hindenburg, i voli civili su dirigibile vennero interrotti. 

 

Ma nel loro secolo d’oro i dirigibili divennero protagonisti delle storie più disparate. Una delle più interessanti riguarda le spedizioni artiche.

La comparsa di dirigibili e aeroplani permise agli esploratori polari di sfruttare nuove opportunità. L’esplorazione dell’Artide a piedi o in nave comportava chiaramente diversi rischi e difficoltà, mentre il trasporto aereo poteva coprire in un’ora la distanza che a piedi si percorre in intere giornate.

Fra gli esploratori interessati a queste nuove possibilità della tecnica vi era l’italiano Umberto Nobile. Fu uno dei pionieri dell’aviazione nazionale. Non partecipò alla Prima guerra mondiale per problemi di salute, sebbene desiderasse ardentemente andare al fronte. Si dedicò dunque alla costruzione di dirigibili e aerei. Nel 1924 Nobile si interessò alle spedizioni polari e, in particolare, all’idea di conquistare il Polo Nord. Non era il solo: all’epoca a rincorrere questo obiettivo c’era anche il celebre Roald Amundsen.

Nobile non fu il primo a cui venne l’idea di utilizzare i dirigibili per la conquista dell’Artide. Una spedizione simile l’aveva considerata anche il conte von Zeppelin, pioniere dei dirigibili pesanti. Ma l’inventore tedesco non realizzò la sua idea a causa dell’avvento della Prima guerra mondiale. Nel 1925 Amundsen e il suo piccolo gruppo completarono il viaggio al Polo su due idroplani. Questa spedizione, però, fu un fallimento: uno dei velivoli si bloccò nel Mar Glaciale Artico a causa di problemi tecnici e l’equipaggio riuscì a sopravvivere a fatica. Proprio allora decisero di provare per un futuro volo il dirigibile, mezzo teoricamente più sicuro in una zona come l’Artide.

Il progetto di Amundsen consisteva nel trovare una grande distesa di terraferma intorno al Polo Nord oppure dimostrarne l’assenza. Per questo, decise di partire dalle Isole Svalbard per raggiungere il Polo e da lì arrivare fino allo Stretto di Bering. Per l’impresa, il norvegese chiese l’aiuto di Nobile che aveva costruito il dirigibile.

Questa spedizione fu un successo: il dirigibile costruito da Nobile, il Norge, volò fino al Polo, sui ghiacci del Polo Nord vennero collocate le bandiere di Norvegia e Italia, ma sulla via del ritorno cominciarono le liti. Nobile era il costruttore del dirigibile e lo pilotava anche, ma a guidare l’intera spedizione era Amundsen. A complicare la situazione intervenne Benito Mussolini: il dittatore italiano tesseva le lodi del proprio connazionale. In seguito, Nobile scrisse con un certo rancore che non incontrò mai più Amundsen. Ma l’italiano, dopo aver ottenuto il grado di generale come ricompensa per il successo in Artide, si preparò a una nuova spedizione.

Il successo del Norge fu, in sostanza, un traguardo sportivo. Gli sforzi maggiori furono profusi per il buon successo del volo. Il Norge non si era posto alcun obiettivo scientifico. Allora Nobile decise di colmare questa lacuna.

La nuova spedizione, prevista per il 1928, aveva alcuni compiti. In primo luogo, Nobile sperava di scoprire una qualche grande isola fra i ghiacci. In secondo luogo, la nuova spedizione avrebbe portato con sé apparecchiature per osservazioni oceanografiche, per lo studio dell’elettricità atmosferica e del magnetismo. Dunque, era previsto l’atterraggio sui ghiacci per ricerche più dettagliate. A bordo del dirigibile si trovavano anche scienziati da diverse parti del mondo. Ad esempio, František Běhounek si occupò delle questioni di elettricità atmosferica, Finn Malmgren dell’Università di Uppsala di quelle di oceanografia. Per il volo Nobile era intenzionato ad utilizzare un dirigibile chiamato Italia.

Nobile e gli altri membri del suo gruppo non erano dei novellini: Běhounek, ad esempio, aveva lavorato sulle Isole Svalbard durante la spedizione di Amundsen. Anche Fridtjof Nansen decise di offrire generosamente la propria esperienza.

Partirono in tutto solamente 18 persone: 13 membri dell’equipaggio guidato da Nobile, tre scienziati e due giornalisti. Di questo equipaggio 7 persone avevano volato con Amundsen sul Norge. Ma al volo conclusivo partito dalle Svalbard presero parte 16 persone.

Sin dall’inizio sulla spedizione si concentrarono varie “nuvole”. Mussolini tolse tutti i fondi a Nobile e perse interesse per lui come scienziato. Inoltre, si sollevarono altre questioni: non nutrendo simpatia per la Cecoslovacchia, i leader italiani si opposero alla partecipazione del ceco Běhounek alla spedizione.

Il 15 aprile, quando l’equipaggio partì da Milano, giunse un comunicato dai meteorologi di Leningrado: le previsioni non erano favorevoli. Tuttavia, il dirigibile Italia arrivò alle Svalbard e cominciò il proprio lavoro. L’equipaggio dell’Italia riuscì a cartografare una delle ultime macchie bianche del pianeta e migliorarono sensibilmente le nostre conoscenze delle isole del Mar Glaciale Artico. Ma allora gli rimaneva ancora la parte più difficile: il volo sul Polo.

Nella notte tra il 23 e il 24 maggio l’Italia passò sopra il Polo. Il dirigibile non riuscì ad atterrare a causa del forte vento, scese a un km di quota mantenendo una velocità di circa 50 km/h. Fino a quel punto tutto era andato più o meno bene e l’Italia cominciò il viaggio di ritorno. Ma qui cominciarono i veri problemi. Inizialmente il dirigibile si ritrovò al centro di un denso banco di nebbia. Dovette scendere fino a quota 150 m. L’Italia cominciò a coprirsi di ghiaccio e fu colpita da un forte vento meridionale.

Inoltre, i propulsori dei motori scagliavano pezzi di ghiaccio contro il rivestimento del dirigibile e a causa dell’elevata velocità creavano in esso dei buchi. I meccanici instancabilmente li riparavano. Ma il dirigibile veniva sballottato come se mosso dalle onde. A causa della temperatura sempre più bassa si perse il controllo del timone. E per poco l’Italia non si scontrò con gli strati di ghiaccio. I motori vennero spenti, il dirigibile riuscì a risalire da solo ed il timone venne riparato, ma, chiaramente, non si respirava un grande ottimismo tra l’equipaggio.

Verso le 10:30 del 25 maggio del 1928 l’Italia ormai completamente ghiacciato cominciò a precipitare incontrollato. Fatali furono molto probabilmente due fattori: la quantità di ghiaccio accumulatosi e una perdita di idrogeno in corrispondenza di una falla nel rivestimento. Nobile fece calare la zavorra, ma era ormai tardi. Dunque, l’Italia si avvicinò alla massa fredda di ghiaccio artico e con un terribile rumore si scontrò con la banchisa.

La navicella del motore si ruppe e il motorista al suo interno morì nello scontro. Come se non bastasse, dopo l’accaduto il dirigibile ormai più leggero si rialzò verso il cielo portando via con sé 6 persone che non erano in grado di pilotarlo. Nessuno li rivide più.

Due passeggeri, Nobile e il meccanico, si ritrovarono con fratture alle gambe (Nobile si slogò anche il polso e ricevette una ferita alla testa), mentre il meteorologo Malmgren si fratturò la mano. Gli altri ebbero traumi meno seri, ma in quel momento il cane del capitano e 9 persone, di cui 3 con fratture importanti, si trovavano sulla banchisa. Buona parte dell’equipaggiamento era volato via insieme all’Italia.

E si sbagliano coloro che pensano che i ghiacci artici siano una superficie uniforme. Tutto intorno a loro c’era la banchisa e i loro movimenti erano limitati dalle spaccature nel ghiaccio. Malmgren, nonostante la sua seria frattura, cominciò per primo a cercare una soluzione. Salito su una piccola altura, iniziò a guardarsi intorno col binocolo. Vide ad est del fumo. La speranza però morì subito: erano i resti dell’Italia che stavano bruciando in lontananza e forse il resto del gruppo stava cercando di dare segnali. Tuttavia, non si scoprì mai cosa bruciasse. Nel frattempo tra i resti si riuscì a trovare qualcosa di utile. Durante il disastro dal dirigibile erano caduti stivali di pelliccia, pistole, carne in scatola, fiammiferi e cioccolato. Riuscirono a raccogliere 125 kg di provviste, anche del formaggio. Però, per 9 persone non è molto. Per questo, Malmgren decise di ridurre subito a 300 grammi la razione giornaliera.

Venne trovata anche della benzina da usare per la stufa artigianale creata a partire dai resti del dirigibile. Uno dei ritrovamenti più preziosi fu una tenda, all’interno della quale furono messi i feriti. Nel frattempo i radiotelegrafisti italiani e lo scienziato Běhounek lavoravano alla stazione radio. Per aggiustarla dovettero raccogliere i vari componenti finiti nel ghiaccio. Con grande fortuna trovarono gli accumulatori e il radiotelegrafista Biaggi disse che il trasmettitore avrebbe funzionato per ben 60 ore.

I radiotelegrafisti issarono un pilone ricavato dai resti del dirigibile e Biaggi riuscì ad inviare il primo segnale: “SOS, Italia, Nobile”. Questi segnali non furono ascoltati da nessuno, ma gli esploratori polari speravano che sarebbero venuti a prenderli il giorno dopo.

I sestanti e i cronometri ritrovati permisero loro di determinare le loro coordinate. Dunque, non rimaneva loro altro che aspettare che arrivassero gli aiuti.

Il mattino del giorno seguente non fu più facile. Malmgren riuscì a trovare una fonte di acqua dolce, ma il problema restava stabilire un collegamento con l’esterno. Il radiotelegrafista, alternando preghiere a bestemmie, ogni due ore inviava un segnale nel vuoto. Intanto riuscirono a calcolare che la terraferma più vicina si trovava a circa 50 miglia.

Nel frattempo la nave Città di Milano, con cui il dirigibile Italia manteneva i contatti, cominciò a preoccuparsi. Il dirigibile era caduto, nessun collegamento pervenuto. Il capitano Romagna tentò di andare in soccorso dell’Italia là dove pensava che si potesse trovare, ma la nave non poteva farsi largo tra i ghiacci. Alle ricerche si unirono anche altre navi e altri aerei, ma non riuscirono a trovarli.

Inaspettatamente gli esploratori polari scoprirono che la banchisa di ghiaccio sotto di loro si muoveva e che in due giorni era andata alla deriva per una distanza di 29 miglia. Ma li trascinava senza avvicinarsi alla terraferma.

Ad un certo punto vicino al campo degli esploratori comparve un orso polare. Malmgren, non perdendo il proprio sangue freddo, gli sparò con l’ultimo colpo rimasto nella pistola. Uno dei viaggiatori era stato cacciatore e fu in grado di macellare l’animale. La carne fresca e la zuppa tirarono su il loro umore.

Intanto a Malmgren e ad altri due esploratori venne l’idea di arrivare fino alla fine della banchisa da soli. L’intento era di arrivare fino al punto in cui potevano avvistare una qualche imbarcazione. La carne d’orso garantì il cibo che serviva per la lunga marcia. A Nobile questa idea non piacque, ma i membri del gruppo lo convinsero a permettere che si facesse un tentativo. Partirono in tre, incluso l’energico Malmgren.

I 6 rimasti al campo si trovavano in situazioni critiche. Rimanere nella tenda senza cibo a sufficienza per giorni fu una grande sfida anche se non avevano paura di morire di fame. La cosa peggiore era non avere notizie: Biaggi inviava segnali che nessuno riceveva.

Furono salvati da chi non si sarebbero mai aspettati. L’URSS reagì alla sparizione dell’Italia persino più rapidamente di quanto fece la stessa Italia. I russi avevano una grande esperienza nelle attività nell’Artide. Per questo, capirono subito con cosa avevano a che fare. A Mosca decisero di usare delle navi rompighiaccio. Venne creato un comitato straordinario per il salvataggio dell’equipaggio dell’Italia.

Il 3 giugno il ventiduenne Nikolay Schmidt appassionato di radio del villaggio di Vokhma captò il segnale inviato dai membri dell’Italia. Schmidt trasferì il segnale a Mosca da dove questo fu inviato a Roma. Poco dopo fu possibile contattare la nave Città di Milano. Dalla banchisa furono inviate le coordinate. Venne svelato il mistero attorno al luogo in cui si trovava l’Italia e si cominciò a parlare di un’operazione di salvataggio.

Lungo i bordi della banchisa furono posizionate delle baleniere per il salvataggio dell’Italia, ma chiaramente queste non potevano penetrare più in profondità nei ghiacci. Le ricerche vennero condotte contemporaneamente sui tre gruppi: quello principale con a capo Nobile, quelli dei tre uomini partiti a piedi e quello dei 6 volati via con il dirigibile.

Sul ghiaccio provarono a liberare delle mute di cani e dall’alto scandagliarono il territorio degli aerei. Il 17 giugno dalla tenda sul luogo dell’incidente del dirigibile furono avvistati i primi aeroplani. Fra l’equipaggio di salvataggio vi era anche l’avversario di Nobile, Amundsen. Di fronte al rischio di morire tutte le vecchie asce di guerra furono sepolte. Sfortunatamente, però, per uno dei più grandi esploratori polari della storia l’operazione di salvataggio fu l’ultima cosa che fece in vita. Infatti, il 18 giugno durante le ricerche a bordo dell’idroplano Amundsen perse la vita insieme al suo equipaggio.

Nel frattempo le ricerche continuarono. Alla spedizione di salvataggio presero parte anche dei mezzi importanti come le navi rompighiaccio Malygin e Krasin.

Il 20 giugno arrivarono gli idroplani italiani sulla tenda rossa. Uno di loro si avvicinò molto alla banchisa e il pilota gridò “A presto!”, mentre risalivano. Finalmente avevano capito dove si trovavano i dispersi.

Il primo a dirigersi verso il luogo in questione fu la Malygin. Questa rompighiaccio fu costruita nel 1912 in Gran Bretagna su commissione della Russia e fu sempre utilizzata nei viaggi settentrionali. Alle ricerche si unirono anche gli esperti aviatori Mikhail Babushkin e Boris Chunovsky. Ognuno partecipò dalla propria nave: il primo dalla Malygin e il secondo dalla Krasin.

Mentre i marinai e gli aviatori sovietici si dirigevano sul luogo, nei pressi degli esploratori dispersi giunse un aereo svedese. Einar Lundborg si rivelò non solo un aviatore esperto, ma anche un pilota audace. Riuscì ad effettuare l’atterraggio direttamente sulla banchisa. L’aereo, dotato di sci invece che di un carrello di atterraggio, atterrò sul ghiaccio ed arrivò proprio di fronte all’accampamento.

Nobile ordinò di prendere il membro più esausto della spedizione. Lundborg voleva portare via a turno tutti, ma cominciò proprio da Nobile che stava soffrendo più di tutti. In seguito, Nobile fu molto criticato per aver acconsentito di volare per primo. Ma proprio lui, sebbene fosse il capo della spedizione, era il peso maggiore per i suoi compagni a causa delle fratture e delle ferite che aveva riportato. Dal punto di vista etico, è vero che la sua scelta può essere interpretata come una manifestazione di vigliaccheria. Comunque sia andata, il capo della spedizione fu il primo a volare.

Lundborg era intenzionato a mantenere la sua promessa. Ma, mentre tornava per il secondo viaggio, commise un errore durante l’atterraggio. Lundborg sopravvisse ma l’aereo non era più in condizioni di volare. Inoltre, il tempo non era più favorevole. Per qualche tempo dovettero abbandonare l’idea di andarsene. Ma altri velivoli arrivarono e calarono degli oggetti incluso un quotidiano svedese dal quale Lundborg scoprì di essere stato avanzato di grado. Infine, arrivò un altro biplano che portò via l’aviatore svedese.

Intanto la rompighiaccio sovietica Krasin capitanata da Karl Jogi si spingeva rapidamente verso nord. Raggiunte le Svalbard, sembrava che restasse ancora poco. Ma ben presto la rompighiaccio incontrò una banchisa formata da ghiacci antichi difficili da rompere. A causa di questi ghiacci, poi, si ruppe una delle eliche. Dunque, un’altra interruzione. L’aviatore Chuknovsky, stanco di questa lenta andatura, decise di ripetere il tentativo di Lundborg.

La Krasin cercò a lungo la banchisa adatta per il decollo. Una volta decollato, Chukhnovsky non riuscì a trovare l’accampamento nello stesso posto della prima volta perché la banchisa si era spostata. Però, incappò comunque nel gruppo di Malmgren! Chukhnovsky inviò un segnale con cui diceva che era atterrato, rompendo però così il carrello di atterraggio, forniva le coordinate proprie e degli esploratori dispersi.

La rompighiaccio fece marcia indietro. Sul ponte di coperta vi erano gruppi di marinai non in servizio con il binocolo in mano. Alle 6:40 del 12 luglio sul ghiaccio vengono trovati due uomini: Malmgren era morto. Esausto per la traversata, con le gambe congelate, alcuni giorni prima aveva chiesto ai compagni di proseguire senza di lui. Ad ogni modo, questa è la versione di Tsappi, uno dei superstiti. Le sue indicazioni erano sconfusionate e non ispiravano grande fiducia. Si diffusero voci di possibili episodi di cannibalismo. Ormai non sarebbe più stato possibile stabilire la verità. Comunque andò, i due esploratori dispersi vennero portati a bordo. Chukhnovsky e il suo gruppo furono salvati solo 5 giorni dopo. L’aviatore rinunciò agli aiuti finché non venne salvata la spedizione Italia.

La Krasin si avvicinò ostinatamente al suo obiettivo. E poco dopo dalla banchisa risuonò una sirena e poi si vide del fumo. Biaggi stava trasmettendo un segnale di benvenuto. La sera del 12 luglio la Krasin raggiunse i dispersi.

Poi fu solo una questione tecnica. Il gruppo di Chukhnovsky venne recuperato sull’isola dove era rimasto bloccato. Lì gli aviatori spararono a due cervi e si fecero una bella mangiata. Insieme alla Krasin si era avvicinato, infatti, un gruppo di cervi norvegesi. L’11 agosto i superstiti vennero accolti trionfalmente a Stavanger. L’epopea del salvataggio dell’Italia si era conclusa.

Delle 16 persone partite con l’ultimo volo dell’Italia ne erano morte e sparite senza lasciare traccia 8. Altre 6 persone, fra cui Amundsen, morirono durante la spedizione di salvataggio.

Umberto Nobile tornò in patria celebrato come eroe nazionale. Ma la stampa lo criticò per aver lasciato per primo la banchisa e il governo era infuriato per il fallimento dell’operazione. Nel 1931 andò a lavorare in URSS: visse per 5 anni vicino Mosca, nel villaggio di Dolgoprudniy.

Tornò definitivamente in Italia solamente dopo il crollo del regime fascista. L’aviatore svedese Lundborg morì tre anni dopo il volo di prova. L’amante della radio Schmidt, il primo ad aver intercettato il segnale di emergenza, fu arrestato negli anni delle repressioni staliniane e fucilato del 1942. Il comandante della Krasin, Jogi, visse una vita piuttosto agiata e morì negli anni ’50.

L’odissea dell’Italia passò alla storia come voleva il suo creatore, il generale Nobile. Questa spedizione non fu solamente un traguardo scientifico, ma un esempio dei sacrifici fatti da persone che mettendo a repentaglio la propria vita hanno salvato un gruppo in difficoltà.

Fonte: Sputnik Italia

Cristoforo Colombo, condotta spregevole del grande esploratore italiano

June 17, 2018 1 comment

Cristoforo Colombo1

Un elenco di atrocità commesse da Cristoforo Colombo

Cristoforo Colombo: la verità tenuta nascosta. Ogni anno, il secondo lunedì di ottobre, gli americani festeggiano il Columbus Day. Questa “festa” è in realtà celebrata in parecchi paesi in tutto il mondo, e viene osservata come un evento positivo.

Vincent Schilling, l’autore dell’Indian Country Today Media Network, ha deciso di documentare le contraddizioni dell’eredità “nobile” di Colombo. Il fatto è che se Colombo oggi fosse stato ancora vivo, sarebbe stato processato per crimini contro l’umanità.

Cristoforo Colombo era uno spilorcio

Colombo ha rubato la ricompensa di un marinaio sulla strada verso il Nuovo Mondo. Dopo aver ricevutofinanziamenti per il suo viaggio da Re Ferdinando e dalla Regina Isabella, Colombo ha offerto una ricompensa di 10.000 maravedi (uno stipendio di un anno per un marinaio, circa 540 dollari) alla prima persona che avesse scoperto la nuova terra.

Anche se fu un marinaio di nome Rodrigo de Triana a scoprire la nuova terra nell’ottobre del 1492, Cristoforo Colombo ritirò l’affare dicendo che era stato lui a notare per primo la terra perché era abbastanza sicuro di aver visto una luce scura la notte prima (sebbene anche per sua propria ammissione, non poteva affermare che fosse terra).

Queste informazioni provengono dal libro di Colombo del 11-12 ottobre 1492 riprodotto da Robert Fuson nel libro The Log of Christopher Columbus, pp. 73-74.

Colombo non è mai effettivamente sbarcato sul suolo americano

Mentre Colombo tornò in America altre tre volte, non ha mai inizialmente messo piede su qualsiasi parte dell’America e sappiamo ora che altri viaggiatori molto probabilmente lo hanno fatto prima di lui.

Il suo primo sbarco fu su un’isola nelle Bahamas dove incontrò gli Arawaks, i Tainos e i Lucayan, una popolazione molto pacifica e amichevole con Cristoforo Colombo e i suoi uomini. Impressionato della loro cordialità, ha fatto quello che ogni europeo avrebbe fatto: prese alcuni dei nativi contro la loro volontà. Nel suo diario scrisse:

“non appena sono arrivato nelle Indie [Colombo erroneamente credette di aver raggiunto l’Asia], sulla prima isola che ho trovato, ho preso alcuni dei nativi con la forza in modo che potessero apprendere e fornirmi informazioni di ciò che c’è in queste parti.”

Cristoforo Colombo ha detto un sacco di stronzate

Quando Colombo incontrò per la prima volta i nativi Arawaks, scrisse nel suo diario:

“Essi… ci hanno portato pappagalli e palline di cotone, lance e molte altre cose… Hanno scambiato tutto quello che possedevano… Erano ben messi, con corpi dalle caratteristiche buone e belle… Non portano e non conoscono armi, perché ho mostrato loro una spada, l’hanno presa per il bordo e si sono tagliati fuori dall’ignoranza. Non hanno ferro. Le loro lance sono fatte di canna… Sarebbero degli ottimi servitori… Con 50 uomini potremmo soggiogarli tutti e fargli fare quello che vogliamo. “

Dopo diversi mesi nei Caraibi, Colombo ebbe un cambiamento di tono. Dopo che due nativi erano stati assassinati durante una negoziazione, egli scrisse:

” .. Sono cattivi e credo che siano dell’ isola dei Caraibi e che mangino gli uomini.” Egli continua scrivendo che sono ” cannibali selvaggi, come piccoli cani che bevono il sangue delle loro vittime. ”

Grazie a Colombo, la “storia cannibale” è ancora insegnata in alcune scuole di oggi.

Gli uomini di Colombo erano un branco di stupratori e omicidi.

Dopo il primo viaggio di Colombo nel nuovo mondo, tornato in Spagna, lasciò 39 uomini alle sue spalle. Gli uomini decisero che avrebbero aiutato le donne indigene locali, e dopo il ritorno di Colombo, trovò tutti i suoi uomini morti. Ne seguì la violenza, e con altri 1.200 soldati a sua disposizione, il nuovo esercito di Colombo violentò, saccheggiò e torturò senza alcuna discrezione.

Ecco il racconto inquietante di Michele de Cuneo amico di Colombo:

“Mentre ero in barca ho preso una donna molto bella dei Caraibi, con il permesso che ha dato a me l’ammiraglio e con i quali, dopo averla portata nella mia cabina, essendo nuda secondo la loro usanza, sono stato sopraffatto dal desiderio del piacere.

Volevo mettere in atto il mio desiderio ma lei si rifiutava graffiandomi con le unghie delle dita in modo tale che io smettessi. Ma vedendo che (per dirvi la fine di tutto), ho preso una corda e lo frustata per bene, per il quale ha sollevato tale inaudite urla che non avreste creduto alle vostre orecchie.

Finalmente siamo arrivati a un accordo in modo tale che posso dirvi che sembrava essere stata portata in una scuola di prostitute “.

Gli spagnoli commisero molti altri atti efferati nei confronti degli indigeni, come ad esempio “testare la nitidezza delle lame sulle persone native, tagliandole a metà, decapitandole e gettandole in vasche di sapone bollente.

Ci sono anche scritti in cui i neonati venivano strappati dal seno della loro mamma da parte degli spagnoli, solo per essere lanciati a capofitto sulle grandi rocce” (Schilling, 2013).

Secondo Bartolome De Las Casas, ex proprietario di schiavi che è diventato vescovo scrive:
” Quelle disumanità e barbarie sono state commesse come non ho mai visto in tutti i mie anni “. “I miei occhi

hanno visto questi atti così estranei alla natura umana che ora tremo mentre scrivo. ”

Cristoforo Colombo era avaro

“L’oro è il più prezioso di tutte le materie prime; l’oro costituisce il tesoro e colui che lo possiede, ha tutto ciò di cui ha bisogno nel mondo, come anche il mezzo per salvare le anime dal Purgatorio e riportarle al godimento del paradiso. -“Cristoforo Colombo”

Colombo riferì alla regina Isabella e al re Ferdinando che nel Nuovo Mondo c’erano “fiumi d’oro”, così come un’abbondanza di schiavi nativi e in cambio gli furono date altre 17 navi e 1.200 uomini. Inutile dire che era disperato nel fare ciò che aveva promesso.

I nativi erano costretti a lavorare in miniere d’oro fino all’esaurimento e, se si rifiutavano, erano o decapitati o gli venivano tagliate le orecchie. Coloro che non fornivano almeno un dado di polvere d’oro ogni tre mesi, gli venivano tagliate le mani. Le mani poi venivano legate intorno al collo e lasciati a sanguinare fino alla morte.

Circa 10.000 nativi sono morti in questo modo.

Schiavi del sesso per tutti!

Oltre a utilizzare i nativi per il lavoro schiavizzato, Cristoforo Colombo vendette femmine giovani di 9 anni ai suoi uomini come schiave sessuali . Nel 1500 Colombo scrive:

” Centinaia di Castellanos sono facilmente raggiungibili per una donna come per una fattoria, e ci sono molti commercianti che vanno in cerca di ragazze; Quelli da nove a dieci sono ora richieste. ”

Colombo ha usato i nativi come cibo per cani

A quanto pare, Colombo ha permesso ai suoi uomini di usare i nativi come cibo per cani. È stato riferito che c’erano macellerie nei Caraibi che vendevano la carne indiana e, periodicamente, è stata condotta una pratica conosciuta come la Montería Infernal (inseguimento infernale) in cui gli indiani furono cacciati, uccisi e mangiati dai cani da guerra Spagnoli.

In un atto ancora più terrificante, i bambini vivi sono stati strappati dalle braccia della loro madre e dati ai cani come sport.

Colombo è stato arrestato per i suoi crimini e poi perdonato

Numerose denunce furono presentate contro Cristoforo Colombo per quanto riguarda la sua cattiva gestione e, nel 1500, fu arrestato da un commissario reale che lo riportò in Spagna in catene. Egli fu spogliato del suo titolo di governatore. Tuttavia il re Ferdinando lo perdonò e gli fu sovvenzionato un altro viaggio.

Grazie agli scritti di Bartolome De Las Casas, il trattamento degli indigeni in Sud America ha esposto le barbarie spagnole, contribuendo alla leggenda nera — la reputazione della Spagna come un “colonizzatore unicamente brutale e sfruttatore“.

Potremmo voler riconsiderare anche di riconoscere questa cosiddetta “festa” e, con la falsa reputazione di Colombo raccontata ai nostri figli a scuola, il minimo che possiamo fare è raccontare loro la verità.

Fonte: Ufoalieni

de Bry, Balboa wirft Indianer den Hunden - de Bry / Balboa throws Indians to hounds -

Catalogna, storia secolare dell’indipendentismo catalano

October 6, 2017 Leave a comment

nuovovisore_La_storia_secolare_dell_indipendentismo_catalano

Per comprendere l’evoluzione politica di quel che sta accadendo in Catalogna è fondamentale considerare le istanze indipendentiste di questa regione come un fenomeno di lunga durata, che si è sviluppato e modellato nel corso dei secoli. Ripercorrerne le tappe fondamentali può rappresentare un utile strumento di comprensione.

Nel 711 i musulmani attraversarono lo stretto di Gibilterra, conquistando la quasi totalità della penisola iberica, unica eccezione la regione montana del Nord della Spagna dove si formarono diversi nuclei cristiani che cominciarono una fiera resistenza. Nei due secoli di “clausura” montana, si definirono alcuni grandi spazi culturali dai tratti ben definiti: basco, catalano, aragonese, galiziano e castigliano-leonese, che gradualmente diedero vita a regni e contee indipendenti. Nel caso catalano, questo processo si sviluppò e si consolidò sotto la tutela dei sovrani carolingi della Francia, che, dopo la riconquista di Barcellona, occupata dagli arabi tra il 717 e il 718, si stabilirono nei Pirenei, dando vita alla Marca hispanica. La crisi che colpì nel X secolo l’impianto politico creato da Carlomagno indusse le contee catalane a unirsi sotto la casata di Barcellona e a non rinnovare il patto di vassallaggio che legava al regno al di là dei Pirenei.

A partire dal XII secolo, in concomitanza con l’espansione meridionale dei regni cristiani della penisola, cominciarono a definirsi i limiti territoriali del principato della Catalogna, che con l’unione dinastica tra i conti di Barcellona e il re di Aragona (1137) segnarono in qualche modo la nascita di un’idea di nazione catalana. È di quest’epoca il primo riferimento ai Cathalani, che proviene da una fonte pisana, il Liber Maiolichinus.

L’unione dinastica (1469) tra il re della confederazione catalano-aragonese Ferdinando e la regina di Castiglia Isabella, avrebbe portato alla nascita del Regno di Spagna. Sin da subito la neonata monarchia si caratterizzò come una confederazione di regni che condividevano sovrano e diplomazia. Questo delicato equilibrio fu mantenuto da Carlo V d’Asburgo (1500-1558), ma venne meno con suo figlio, Filippo II (1527-1598), che, circondato da ministri castigliani, governò in senso assolutista e centralista a discapito delle leggi e degli interessi degli altri regni. Da quel momento, furono molto frequenti le tensioni tra i monarchi spagnoli e le istituzioni catalane (Generalitat de Catalunya). Il latente conflitto arrivò al suo apice nel 1640, con la ribellione popolare detta Guerra dels Segadors che portò alla nascita della Repubblica catalana (1641), sotto protezione del re di Francia Luigi XIII, e che terminò solo nel 1652 con la conquista di Barcellona.

La Guerra di successione spagnola del 1700 e la successiva pace di Utrecht del 1713 non fecero che aumentare i propositi indipendentisti della Catalogna, duramente repressi dal nuovo re Filippo V di Borbone (1683-1746), che l’11 settembre 1714 (festa nazionale catalana), dopo 13 mesi di assedio, conquistò Barcellona, scatenando una durissima repressione contro le autorità catalane. I due secoli che seguirono, caratterizzati da una calma relativa, favorirono ulteriormente il consolidarsi dell’identità catalana, che trovò un suo compimento nella nascita di un vasto movimento letterario (Aribau, Verdaguer, Maragall, Guimerà).

Si giunge così al XX secolo, quando, durante la guerra civile spagnola (1936-1939) il movimento indipendentista catalano si schierò apertamente a favore dei repubblicani e contro Franco. La vittoria di quest’ultimo portò a un prezzo altissimo da pagare per la comunità catalana. Tra il 1939 e il 1975 il governo centrale sotto le direttive del Caudillo distrusse con ferocia inaudita ogni istituzione locale, con un accanimento particolare nei confronti della cultura e della lingua. Incalcolabile poi il numero delle vittime delle sacas, le esecuzioni sommarie di massa che per anni decimarono quelle classi popolari catalane che maggiormente si erano rese protagoniste della lotta al franchismo. Alla morte del generale Franco, nel novembre 1975, le aspirazioni autonomiste tornarono a manifestarsi più liberamente. Una lunga serie di scioperi e di manifestazioni di massa portarono alla “concessione” dello statuto di autonomia del dicembre 1979, per arrivare ai nostri giorni, al 27 settembre 2015, giorno in cui si sono svolte e concluse le elezioni del Parlamento catalano, che hanno ridato vigore all’idea di una Catalogna indipendente.

Fonte: Treccani

Port Royal

June 19, 2012 Leave a comment

Port Royal è stato il principale centro di commercio marittimo della Giamaica nel XVII secolo. In quel periodo acquisì la reputazione di essere “la città più ricca e malfamata al mondo”. Era famosa per la vistosa ostentazione della ricchezza e per i costumi dissoluti, era un centro dove pirati e corsari investivano o spendevano tutti i loro averi. Durante il XVII secolo, gli Inglesi incoraggiarono, ed in alcuni casi pagarono, i bucanieri di stanza a Port Royal ad attaccare le spedizioni navali spagnole e francesi.
Il 7 giugno 1692, un terremoto distrusse Port Royal, provocando l’inabissamento di due terzi della città nel Mar dei Caraibi. Oggi la città è sommersa da anche 8 m di acqua. È considerata il più importante sito archeologico sottomarino nell’emisfero occidentale, possedendo tesori provenienti dalle razzie spagnole nel Guatemala ed essendo numerose le navi, anche pirata, che nel corso dei secoli sono affondate nella baia con il carico trasportato.
Dopo tale disastro naturale, il suo ruolo commerciale fu assunto dalla città di Kingston. Un progetto pionieristico prevede lo sfruttamento turistico della città sommersa, come meta di crociere e la realizzazione, prevista per il 2015-16, di un museo e ristorante con vista sottomarina.
Colonizzazione di Port Royal
Port Royal era situata all’estremità occidentale del tombolo che protegge la baia di Kingston. Fondata come fortificazione spagnola, divenne possesso inglese nel 1655. Nel 1659 il forte era circondato da duecento edifici tra case, negozi e magazzini.
Nel periodo compreso tra la conquista inglese dell’isola (1655) e il terremoto che distrusse la città (1692), Port Royal fu la capitale della Giamaica; dopo il 1692, Spanish Town assunse il suo ruolo, finché la sede del Governo non fu trasferita a Kingston nel 1872.
La pirateria a Port Royal
Diverse caratteristiche della città, risultarono accattivanti per gli scopi della pirateria. Port Royal era situata lungo le rotte di navigazione da e verso la Spagna ed il Panamá e questa vicinanza forniva ai pirati un facile accesso alle loro prede. La baia era sufficientemente vasta da fornire protezione ai velieri che necessitavano di manutenzione ed era una posizione ottimale da cui lanciare attacchi agli insediamenti spagnoli. Da Port Royal, Henry Morgan attaccò Panamá, Portobelo e Maracaibo. Roc Brasiliano, John Davis e Edward Mansveldt (Mansfield) utilizzarono Port Royal per le loro azioni di pirateria.
Poiché gli Inglesi mancavano di truppe sufficienti a difendere la città da Spagnoli e Francesi, i Governatori della Giamaica a volte si rivolgevano ai pirati.
Intorno al 1660, la città si era guadagnata la reputazione della Sodoma del Nuovo Mondo, dove la maggior parte dei residenti erano pirati, tagliagole o prostitute. Quando Charles Leslie scrisse la sua storia della Giamaica, incluse una descrizione dei pirati di Port Royal:
« Il vino e le donne prosciugano i loro averi ad un tale livello che […] alcuni tra loro sono costretti ad elemosinare. Sono diventati famosi per spendere due o tremila pezzi da otto in una sola notte; ed uno ne diede 500 ad una sgualdrina per vederla nuda. Era abitudine comprare una botte di vino, spostarla sulla strada ed obbligare chiunque passasse a bere »
In seguito alla nomina a governatore di Henry Morgan, Port Royal iniziò a mutare. Non c’era più la necessità che i pirati la difendessero; il commercio degli schiavi assunse una maggiore importanza, mentre i cittadini più dignitosi iniziarono a disprezzare la reputazione che aveva acquisito. Nel 1687, la Giamaica approvò una legge anti-pirateria. Da porto franco per i pirati, Port Royal divenne famosa come il luogo della loro esecuzione. Charles Vane e Calico Jack furono impiccati nel 1720 a Gallows Point. Due anni dopo, quarantuno pirati furono uccisi in un solo mese.Port Royal crebbe fino a diventare una delle due città più grandi e il porto economicamente più importante delle colonie inglesi. All’apice del suo successo, in città era presente un’osteria ogni dieci abitanti. Nel luglio del 1661, furono rilasciate quaranta licenze per aprire una taverna. Durante il ventennio che terminò nel 1692, vissero in città circa 6500 persone. Furono censiti in città quattro orafi, quarantaquattro tavernieri ed una varietà di artigiani e mercanti che vivevano in duecento edifici stipati in 51 acri (206.000 m²). Duecentotredici navi sostarono nel porto nel 1688. Alla abituale forma di baratto di beni in cambio di servizi, in città si preferiva fare ricorso a monete.
Il terremoto del 1692 e le sue conseguenze
Il 7 giugno 1692 un terremoto devastante colpì Port Royal e lo spuntone sabbioso su cui la città era costruita sprofondò nella Baia di Kingston. Il livello freatico era generalmente soltanto 2 metri al di sotto della superficie. Il terremoto generò tre onde anomale che erosero progressivamente il tombolo e, in poco tempo, la maggior parte della città si trovò permanentemente sotto il livello del mare, sebbene ancora sufficientemente intatta da permettere ai moderni archeologi l’individuazione di siti ben conservati. Il terremoto e lo tsunami che lo seguì uccisero complessivamente tra le mille e le tremila persone, più della metà della popolazione. Si stima che le malattie che si diffusero in modo incontrollato nei mesi seguenti, portarono alla morte altre duemila persone.
Quando la notizia si diffuse, affiancata, nella mente dei contemporanei, alla reputazione di città peccaminosa, in molti credettero che la distruzione di Port Royal per opera del terremoto fosse un “punizione di Dio”.
Furono compiuti alcuni tentativi di ricostruzione, iniziando da quanto non era stato sommerso, ma incontrarono altri disastri. Un primo tentativo fu nuovamente distrutto nel 1703 da un incendio. Le successive ricostruzioni furono intralciate da diversi uragani nella prima meta del XVIII secolo, e presto Kingston eclissò Port Royal in importanza.
Una nuova Città di Port Royal fu costruita vicino alla vecchia Port Royal e divenne il principale comando delle forze navali britanniche nel Mar dei Caraibi.
Storia recente
Il 14 gennaio 1907 un nuovo e definitivo terremoto ha colpito Port Royal, ne ha distrutto la maggior parte ed ha causato lo sprofondamento in mare di un’altra porzione del tombolo su cui sorgeva la città, sommergendone ulteriori porzioni.
Oggi l’area è un’ombra dell’antica grandezza, con una popolazione di meno di duemila abitanti e poca o nulla influenza commerciale o politica. L’area, comunque meta di turismo, è in stato di abbandono. Il governo della Giamaica ne ha recentemente stabilito il recupero.
Port Royal nella cultura contemporanea
Port Royal, come altre località che si affacciano sul Mar dei Caraibi (Cartagena, Portobelo, l’isola di Tortuga), è ancora associata nell’immaginario collettivo alla Pirateria del XVII secolo e spesso compare in produzioni cinematografiche e televisive di genere.
Numerose scene della trilogia cinematografica Pirati dei Caraibi sono ambientate nella città di Port Royal ai tempi del suo splendore economico.

Fonte: Wikipedia

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Zosimo di Panopoli, electrum e lo specchio di Alessandro il Macedone

June 15, 2012 Leave a comment

La storia antica tramanda che Alessandro il Macedone fu inventore dell’electrum in questo modo: «La folgore si abbatteva senza posa sulla terra e devastava ogni anno i frutti della terra e la stirpe degli umani, a tal punto che soltanto pochi sopravvivevano. «Quando ne venne a conoscenza, Alessandro, preso dal dolore, inventò questa lega, composta d’oro e d’argento, che fu detta electrum, cioè “intreccio”, proprio perché è una mescolanza di questi due metalli lucenti. «Se qualcuno in quei tempi si fosse trovato esposto ai colpi della folgore, avrebbe preparato con i metalli lucenti un electrum lucente e in virtù di esso non sarebbe stato colpito dalla calamità, come non ne fu colpito Alessandro. «Fu allora che Alessandro fece coniare delle specie di monete istoriate, composte d’oro e d’argento, e le fece diffondere nelle terre sulle quali si abbatteva la folgore. Le fece lavorare con l’erpice e le abbandonò a se stesse. La folgore non vi si abbattè più.
L’ELECTRUM E LO SPECCHIO
«Alessandro teneva nella sua reggia uno specchio che, a suo dire, proteggeva da tutti i mali. E non mentiva, perché non toccherà mai a nessun altro di trovarsi di fronte a sventure e contese pari a quelle che dovette affrontare lui. «I re che gli succedettero, a lui inferiori, lo credettero, ed entrarono in possesso di questo specchio, che essi custodivano nelle loro case come un talismano. Quando un uomo vi si guarda, questo specchio lo induce a investigare se stesso e a purificarsi dalla testa fino alla punta delle unghie. «Lo specchio fu poi custodito dai sacerdoti nel tempio detto “delle Sette Porte”. [ … ] «Lo specchio non era predisposto allo scopo di riflettervisi materialmente: appena lo si lasciava, si perdeva istantaneamente memoria della propria immagine. Che cos’era realmente questo specchio? Ascolta. «Lo specchio rappresenta lo Spirito- divino. Quando l’anima vi si riflette vede le proprie impurità e le allontana. Cancella le sue macchie e riposa irreprensibile. Quando si è purificata, imita e prende come modello il Sacro Spirito. Diventa essa stessa Spirito. Entra in possesso della quiete e incessantemente si riconduce allo stato superiore in cui si conosce il dio e dal dio si è conosciuti. Allora, divenuta senza macchia, si libera dagli impedimenti suoi propri e dai legami che ha in comune con il corpo e si innalza verso Colui che può tutto. Che cosa esprime infatti la parola dei filosofi? “Conosci te stesso.” Allude in tal modo allo specchio spirituale e noetico. «Che cos’è dunque questo specchio se non lo Spirito divino e sorgivo? A meno che non si dica che è il ‘Principio dei Princlpi, il Figlio del dio, il Lógos, Colui i cui pensieri e sentimenti promanano dal Sacro Spirito. «Tale, o donna, l’interpretazione dello specchio.
«Quando un uomo vi si guarda e si coglie in esso, distoglie lo sguardo da tutto ciò che porta nome di dio o di demone. Congiungendosi con il Sacro Spirito, diviene uomo compiuto. Vede il dio che è dentro di sé attraverso il Sacro Spirito. «Questo specchio è posto al di sopra delle Sette Porte, nel lato occidentale, in modo che colui che vi si rispecchia vede l’Oriente, là dove brilla la luce noetica che è al di sopra del velo. Esso è collocato anche nel lato che guarda a sud, al di sopra di questo mondo visibile, al di sopra delle Dodici Case e delle Pleiadi, che sono il mondo dei Tredici. Al di sopra di essi esiste quest’Occhio dei sensi invisibili, quest’Occhio dello Spirito, che dimora là e in tutti i luoghi. Là si contempla questo Spirito perfetto che ha ogni cosa in suo potere nel momento presente e fino alla morte. «Abbiamo esposto tutto ciò che precede perché qui ci ha condotti la trattazione dello specchio di electrum, lo Specchio dello Spirito.»

Amatrice, terremoto dell’Ottobre 1639

June 4, 2012 Leave a comment

Come descritto in “Nuoua, e vera relatione del terribile, e spauentoso terremoto successo nella citta della Matrice, e suo stato, con patimento ancora di Accumulo, e luoghi circonuicini, sotto li 7. del presente mese di Ottobre 1639. Con la morte compassioneuole di molte persone, la perdita di bestiami d’ogni sorte, e con tutto il danno seguito fino al corrente giorno. Con ogni diligenza, e certezza descritta da Carlo Tiberij romano … ” – di Carlo Tiberij Romano – Marciani 1639 (nei manoscritti rari della Biblioteca Casanatense di Roma coll. Bibl. Misc. 367/16)
Una delle cause di mancanza di dati storici in loco, circa l’avo Giustiniano Giustiniani morto a Roccapassa nel 1735 e precedenti, è anche data dal terribile terremoto dell’ottobre 1639 (del 7 grado della scala Mercalli) che distrusse l’intero abitato e probabilmente anche i vecchi registri ecclesiastici.
Ciò è anche documentato da una antica relazione sull’evento che per l’appunto dice “La Rocca distrutta”.
Dopo un evocazione di preghiera, il testimone oculare della tragedia parla di questo terribile terremoto, avventuo nella notte (le nove) del sette ottobre 1639: “… alcuni fuggono, altri si rifuggiano nella Chiesa di S.Domenico presso l’esercito del S.S. Rosario per invocare la protezione della Beata Vergine”. I Signori Alessandro Orsini e consorte, principi di Amatrice, furono costretti a lasciare il loro palazzo e fuggire nella loro villa di campagna della Santa Iusta.
Il relatore stima i danni in 400.000 scudi dell’epoca.
Molti furono i morti sepolti sotto le rovine, il relatore comunque ne cita ufficialmente 35. Anche se narra che la più parte sono rimasti sepolti ed il fetore ed il puzzo è insopportabile.
La scossa più forte durò un quarto d’ora. I danni per le varie frazioni sono elencati nel seguente modo:
Campo Tosto rovinato in parte, S.Martino tutto, Collalto mal tenuto, Pinaca parte, Filetta e Svevocaia tutte, L’abbazia di S. Lorenzo sotto il Vescovado di Ascoli quasi tutta (salvi tutti i frati sottolinea il relatore), Padarga in parte, Cantone Villa solo una casa in piedi, Corva distrutta, Forcella tutta, Capriccio buona parte, Leila poco.
Il 14 ottobre del 1639 alla stessa ora ci fu probabilmente una seconda scossa. Il relatore riporta un nuovo elenco di paesi danneggiati:
Saletta poco, Corsenito quasi tutto, Casale tutto, La Rocca distrutta, Torreto neppure un legno, Colle Baffo solo una casa in piedi, Palsciano buona parte, Santo Iorio tutto sfracassato, Colle Moresco tutto. <brLa Chiesa dei Padri Francescani, La Rocca dei Salli è tutta rovinata. A Cancello dopo Montereale il palazzo del Signorotto locale Ludovico Cerasi e del Digor Gio Paolo Ricci sono completamente distrutti.
L’andamento temporale dei terremoti più forti nell’Appennino umbro-marchigiano è abbastanza irregolare. Ai terremoti distruttivi del 1279, con area epicentrale vicina o addirittura coincidente con quella dei terremoti attuali, si ebbero poi quelli del 1328, 1352 e 1389 in Alta Val Nerina, sono seguiti, secondo i cataloghi, un periodo di attività più ridotta, con pochi terremoti distruttivi: 1458, Alta Val Tiberina, 1599 Cascia ed infine quello di Amatrice dell’ottobre 1639.

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Calabria, terremoto del Marzo 1638

June 1, 2012 Leave a comment
Il terremoto del 27 marzo 1638 fu un terremoto catastrofico che colpì una area molto vasta della Calabria nei giorni 27 (sabato, antivigilia delle Palme) e 28 marzo (domenica delle Palme) del 1638.
L’analisi delle fonti, sia documenti di archivio (per es., le relazioni ad Limina dei vescovi, i documenti del “Fondo Notai” negli archivi locali, regesti della Regia Camera della Sommaria e dei fogli di «Avvisi compilati») che opere di storiografia del XVII secolo hanno permesso di ricostruire la sequenza degli eventi mostrando che nei giorni 27 e 28 marzo 1638 si sono verificate tre differenti scosse principali che hanno comportato la distruzione di oltre 100 villaggi e la morte di un numero di persone stimato fra 10 000 e 30 000[1]:

Giorno Località Lat. Lon. Intensità epicentrale X 10 (MCS) Intensità massima X 10 (MCS) Magnitudo equivalente (Magnitudo momento)[3]
27 marzo Bacino del Savuto 39.11 16.27 11 11 6.8
28 marzo Piana di Sant’Eufemia 38.96 16.26 11 11 6.6
28 marzo Serre occidentali 38.68 16.23 9.5 10 6.6

27 marzo: Bacino del Savuto La prima scossa si verificò alle ore 22 del 27 marzo 1638 e interessò soprattutto la zona dell’alto Crati, alle pendici della Sila, della Valle del Savuto e centri lungo la costa tirrenica poco a nord del golfo di Sant’Eufemia. In numerose località si raggiunse un’intensità epicentrale di 11 (MCS); vennero distrutte fra l’altro Martirano, Rogliano, Santo Stefano di Rogliano, Grimaldi, Motta Santa Lucia, Marzi e Carpanzano. Furono distrutti più o meno completamente 17 centri abitati sulla costa tirrenica, per es. Amantea; ma danni lievi furono rilevati perfino a Maratea (a nord) e a Reggio Calabria (a sud). Secondo la relazione ufficiale del consigliere Ettore Capecelatro, inviato nelle Calabrie viceré spagnolo, complessivamente furono distrutte oltre 10 000 abitazioni e altre 3 000 circa divennero inabitabili[2]. Il vescovo di Martirano Luca Cellesi, ferito nel crollo del palazzo vescovile, si rifugiò a Pedivigliano e nella Relazione ad limina dell’anno successivo riferirà che il sisma aveva ridotto la popolazione della sua diocesi da 12 000 a 6 500 abitantiIl terremoto del 27 marzo 1638 fu un terremoto catastrofico che colpì una area molto vasta della Calabria nei giorni 27 (sabato, antivigilia delle Palme) e 28 marzo (domenica delle Palme) del 1638.
Nei paesi colpiti dal terremoto la popolazione diminuì anche per le migrazioni che seguono. Numerosi abitanti di Motta Santa Lucia si trasferirono a Decollatura, stimolati anche dalla politica del vescovo Cellesi di popolare i «luoghi montani» abitati fino ad allora solo durante il periodo primaverile-estivo[4]; gli abitanti di Pedivigliano e Pittarella, appartenenti all’università di Scigliano, popolarono i casali di Scigliano nella Sila Piccola, anch’essi disabitati, come Soveria Mannelli e Castagna[5]. Abitanti di Scigliano e Carpanzano si trasferirono ancora verso la lontana costa ionica dando origine alle attuali località di Savelli e Mandatoriccio, con importanti conseguenze di natura sociale e linguistica[6]. Un medico calabrese, tale Pier Paolo Sassonio, predisse l’insorgenza di nuove scosse telluriche: fu fatto catturare dal viceré Ramiro Núñez de Guzmán e condannato a remare nelle galere[7]; in effetti, pochi mesi dopo, l’8 giugno dello stesso anno la Calabria fu sconvolta da un altro terremoto disastrosissimo, questa volta nel Crotonese

28 marzo: Piana di Sant’Eufemia La domenica delle Palme, 28 marzo 1638 due nuove scosse di terremoto si verificarono più a sud, nella Calabria Ulteriore: gli abitanti “sentirono il terreno dondolarsi come dentro un naufragante legno”[9]. L’epicentro del più violento dei due eventi del 28 marzo si verificò nei pressi di Nicastro. A Nicastro si verificò il maggior numero di morti, circa 3.000 persone, di cui 600 rimaste vittime del crollo della chiesa dei Francescani, affollata a causa delle celebrazioni delle Palme. Furono numerosissimi i morti anche a Sambiase, Castiglione Marittimo, Feroleto Antico e Sant’Eufemia, quest’ultimo distrutto da un maremoto. Sant’Eufemia fu abbandonato e ricostruito in un nuovo luogo. Nicastro, invece, il 20 giugno 1638, poche settimane dopo il terremoto, subì l’assalto dei Turchi che la saccheggiarono[10]. Nacque il comune di Feroleto Piano, oggi Pianopoli, in seguito alla migrazione di alcuni superstiti del distrutto comune di Feroleto Antico. In seguito alle scosse, come era avvenuto peraltro nella valle del Savuto, si aprirono fenditure dalle quali in qualche caso fuoriuscirono acqua o gas solforosi. Questi fenomeni, i contemporanei fenomeni di abbassamento del suolo, unitamente ai preesistenti dissesti idrologici, causarono la formazione di una vasta area paludosa di circa 180 km² fra l’Amato e l’Angitola che rese malarica la Piana di Sant’Eufemia per tre secoli, fino alla bonifica agraria del 1928[11].

28 marzo: Serre calabresi occidentali [modifica]Di minore intensità, ma pur sempre distruttive, la scosse che si verificarono il 28 marzo nelle Serre occidentali. Narra Domenico Martire che presso l’odierna Vibo Valentia (a quei tempi Montelone) “s’aperse una certa voragine, che quanto di giorno buttava fumo di zolfo, tanto di notte fiammeI danni più gravi furono patiti dai centri di Vibo, Rosarno, Mileto, mentre i centri di Borrello, Briatico, e Castelmonardo furono praticamente rasi al suolo. Sulla costa si verificò il maremoto: secondo Giulio Cesare Recupito (1581-1647) sul litorale di Pizzo il mare, dopo essere arretrato per circa 2000 passi[13], si riversò sulla spiaggia con effetti rovinosi.

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Vesuvio, eruzione vulcanica del 1631

May 31, 2012 Leave a comment

Preeruzione. Prima dell’eruzione il monte Vesuvio era ricoperto da una fitta vegetazione anche all’interno del cratere. Il Gran Cono era alto circa 1187m, 55m più del Monte Somma, con un diametro craterico di 480m e una profondità di circa 250m. C’erano fumarole lungo l’orlo e sul fondo del Gran Cono, mentre nell’Atrio del Somma erano presenti piccoli stagni di acque termali e minerali.
A giugno 1631 gli abitanti intorno al vulcano cominciarono ad avvertire leggere scosse sismiche e, da agosto, si iniziò a vedere, sul lato nord del cono, un aumento dell’attività fumarolica. A dicembre cominciò la fase preeruttiva, con alcuni terremoti avvertiti nell’area vesuviana e un progressivo sollevamento del fondo craterico, che pochi giorni prima dell’eruzione ne raggiunse l’orlo. La temperatura aumentò e scomparvero i laghetti termali intracalderici.
Il 15 dicembre 1631, alle 19, i terremoti cominciarono ad avvertirsi anche a Napoli e nella notte andarono intensificandosi in numero ed energia, in concomitanza con la formazione di fratture eruttive nell’Atrio e sulle pareti del Gran Cono.
Colonna sostenuta. All’alba del 16 dicembre 1631 cominciò l’eruzione: una tremenda esplosione provocò una gigantesca nuvola, la colonna eruttiva convettiva, che spinta dall’elevata pressione interna al vulcano raggiunse circa 13 km di altezza (“…qualcuno misuratala osservò che essa era ascesa a più di 30 miglia d’altezza…”, [Braccini, 1632]). La nube era all’inizio di colore chiaro e poi, nel massimo innalzamento, più scura per l’elevata concentrazione di particelle [Rosi et al., 1993] (“…non molto stette che cangiando forma divenne una smisurata nuvola, la quale non già bianca come dianzi, ma alquanto nera, innalzandosi a meraviglia e trapassando di gran lunga con infinita veementa la prima regione dell’aria…”[Giuliani, 1632]).
Ricaduta di cenere. I boati dell’eruzione vennero avvertiti anche, come riportano da alcune cronache, nelle Marche, Umbria, Abruzzo, Calabria e Puglia (“In tutta la valle di Spoleto fin a Perugia e tutta la montagna di Norcia per un’hora continua furno sentite botte e rimbombi come d’artiglieria, ognun pensando fusse il luogo circumvicino e nessuno potendo penetrar dove ciò sia proceduto.” [Frat’Angelo de Eugeni, 1631]). Molte ceneri e pesanti blocchi di scorie iniziarono a cadere intorno al vulcano, fino ad alcuni chilometri di distanza, in prevalenza nei settori a nord e a nord-est del Somma (“…Non solo cenere, ma cadeano dal cielo anche pietre infocate come le scorie che cavavano i fabbricanti dalle fucine, grandi quanto una mano e anche più…” [De Contreras, 1633]).
Collasso della colonna eruttiva e flussi piroclastici. Verso le 10 del mattino del 17 dicembre 1631 venne avvertito un violento terremoto, in concomitanza con il collasso del cratere centrale che pose fine alla fase di colonna sostenuta o pliniana (“…sopravvenne un ultimo, ma più di tutti gli altri esizial terremoto, che fece vacillar come canne ogni edificio e non pochi ne scompaginò gittandone a terra non piccol numero…” [Sant’Agata: in Palomba, 1881]).
Si passò così ad un alternanza di colonna sostenuta e colonna collassante che, scendendo velocemente lungo le pendici del vulcano, generò colate piroclastiche che distrussero vegetazione e manufatti, provocando molte vittime tra la popolazione (“…il fuoco era grandissimo e cresceva a momenti prendendo doppio cammino, parte s’innalzava verso il cielo con tanta velocità che in breve trapassò tutte d’altezza le nuvole, e parte si dilatava in falde per lo monte giù a guisa di un fiume…” [“Lettera” di Manzo riportata in: Riccio, 1883]. I depositi di flusso piroclastico si rinvengono in prevalenza a Boscoreale e, in misura minore a Torre del Greco e San Sebastiano al Vesuvio.
Il collasso e l’intensa fratturazione, con lo svuotamento del condotto magmatico, causarono un’ulteriore decompressione del sistema vulcanico, con richiamo di acqua dagli acquiferi o dal mare nei condotti. L’interazione magma-acqua determinò forti esplosioni freatomagmatiche per tutta la giornata del 17 dicembre e parte del 18 dicembre.
Colate di fango (Lahars). La grande quantità di vapore acqueo immesso in atmosfera e il nucleo di condensazione costituito dalle particelle di cenere scatenarono piogge torrenziali. In poco tempo, grandi porzioni della coltre piroclastica che ricoprirono il monte Somma e il Cono del Vesuvio furono rimobilitate, generando rovinose colate di fango (Lahar) lungo le pendici, causa di alluvionamenti fino a 10km di distanza dal vulcano, in particolare nei settori a nord e nord-est.