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Africa, maschere e simbologie africane
Sono un grande appassionato di maschere africane e ne posseggo un discreto numero raccolto nel corso degli anni in diversi paesi africani. Alcune società umane non hanno ignorato le maschere e questo accaddè nel momento in cui l’uomo ebbe accesso allo stato della cultura. Dalla Grecia antica all’America antica passando per l’Asia e l’Oceania, le maschere hanno simbolizzato gli dei, incarnato la bellezza, espresso la magnificenza e l’illusione, ma anche la calma, l’ordine e la serenità. Maschere d’iniziazione del Peloponneso, maschere Bugaku e Nô del Giappone, maschereBarong di Java, maschere degli Eskirno e degli Indiani d’America, maschere dei Paou Orokolo della Nuova Guinea. Nell’Africa nera, il continente venne celebrato dal debutto del XX° secolo per la ricchezza della sua arte, per la scultura delle maschere e per l’infinita varietà di arte pittorica. Le maschere in questo contesto possono essere considerate come un fenomeno artistico caratterizzato dalla sua ubiquità e diversità di forme e di stili. Si incontrano maschere nelle savane dei paesi sudanesi e dei paesi Bantou come si incontrano nelle foreste del golfo della Guinea o in Congo. Queste regioni ricoprono differenti tipologie di civilizzazione : i Dan, i Vê e gli Akan. E poi ancora le civiltà dei granai con i Dogon, i Senoufo e le civiltà delle città con iMandingo e gli Yoruba. Parliamo di società che possono essere patriarcali o matriarcali, organizzate in Stati o sulla semplice base del villaggio. Quello che stupisce in questa presenza di maschere è l’indifferenza alle variazioni di ordine geografico o culturale, sociale o politico. Esistono tuttavia delle regioni privilegiate in questa distribuzione geografica e socio-culturale delle maschere in Africa.
Il Sudan occidentale e principalmente i popoli sul delta del Niger (Bambara, Dogon, Mossi, Bobo)
Le regioni al Sud e al Sud-Est del Congo (Congo, Zaire, Angola)
Le regioni costiere da Casamance sino al Congo, in particolare i popoli del massiccioguineo-liberiano, della Costa d’Avorio, della Nigeria, del Cameroun e del Gabon.
Gli alti plateau situati tra il lago Nyassa e l’Oceano Indiano
Un centro importante di maschere si trova nel Sudan centrale, l’Oubangui Chari(l’attuale Repubblica Centroafricana) e il nord del Congo. Infine, si presume che lesocietà politiche organizzate in Stato fortemente centralizzato siano meno ricche in maschere che quelle organizzate in califfati e comunità pastorali. Le forme sono variegate e di taglie e materiali diversificati ma con una preponderanza manifesta del legno. Esiste una profusione di forme ma tre tendenze principali sono le più importanti. La prima riguarda le maschere a forma animale o maschere zoomorfe e sono la rappresentazione dei caratteri dominanti degli animali rappresentati, come le maschere Boli dei Bambara che raffigurano leoni, iene e antilopi. Da notare l’importanza delle Tyi-Wara, maschere di antilopi che conducono le danze durante i grandi avvenimenti. Nel contempo, la danza mascherata dei Douro e dei Baoulé, è una vera rassegna di maschere zoomorfe dove appaiaono teste di cani, gazzelle e elefanti. Le maschere a figure umane o maschere antropomorfe rappresentano sia uomini che donne. Presso i Dogon, le maschere umane incarnano gli avi, i cacciatori e i maghi. Esistono anche tra i Mossi delle maschere con figure femminili accostate a maschere con figure maschili. E ancora maschere antropomorfe presso altri popoli come i Dan e iGouro, dove i tratti sono finemente cesellati. Chi non ricorda la celebre Die-La Lou–Zaouli, una delle più belle attrazioni danzanti ivoriane. Le maschere antropomorfeassociano i tratti umani a quelli animali, ma con una preponderanza di volti umani. I visi maschili comprendono alcuni ornamenti sovente periferici a carattere animale (corna, piume, denti) che servono a sottolineare le caratteristiche funzionali della maschera. Le maschere Zamblé dei Gouro ne sono un esempio. Per quanto riguarda le maschere Wé (Guéré e Wobé) questi ornamenti sono composti con raffinata ricerca estetica e rappresentano un grado molto alto d’espressione simbolica. Attraverso le forme che si donano alla materia, le culture delle maschere cercano di rendere visibile l’invisibile ed esprimere delle idee. L’unione degli elementi naturali e astratti, degli elementi inpressionisti e degli elementi surrealisti, si innesta in una sorgente di identità nuova : la maschera appunto. Colui che indossa una maschera con una testa potente, un occhio guardingo, corna di bufalo, gola di coccodrillo, esercita sicuramente una impressione di forza e di coraggio. L’equilibrio statico, la simmetria e la frontalità devono evocare la grandezza sovrannaturale delle maschere. Due altri stili appaiono chiari attraverso le forme : uno stile cubista, dove dominano le forme geometriche, caratteristica delle maschere Dogon, Bambara, Bobo e Wé (Guéré in particolare) e uno stile naturalista dove domina al contrario la rappresentazione del reale visibile, caso delle maschere dei Gouro, dei Baoulé e dei popoli del Bénin. Ma tra questi due orientamenti esistono degli stili intermedi che si incontrano tra le sculture delle maschere Dan e Sénouto, per citare alcuni esempi. In ragione delle zone geografiche e culturali che la compongono e degli scambi che la storia ha permesso, la Costa d’Avorio occupa un posto importante nelle sculture delle maschere africane. L’area culturale della costa ovest-africana sino all’imbocco forestale guineo-liberianoapporta in Costa d’Avorio, con i Dan e i Wé, le costruzioni naturaliste e cubistecaratteristiche di queste zone. Questa influenza si sviluppa nell’ovest e nell’est, attraverso la Costa d’Avorio, dai Gouro, parenti prossimi dei Dan, e dai Niaboua, Bakoué, Néyo, Bété e Godié, culturalmente apparentati ai Wé. Infine la scultura delle maschere Baoulé partecipa alle tecniche artistiche dell’area atlantica dell’Est (Akan, AdjaYoruba) e agli stili sénoufo e gouro, creando una sintesi di concetti dell’Ovest, dell’Est e del Nord delle sotto regioni dell’Africa occidentale. La posizione geografica centrale del popolo baoulé, appare come un approccio di spiegazioni di questa impronta culturale. Tutto questo comporta una ricchezza culturale importante per la Costa d’Avorio che risulta, in Africa occidentale, una delle regioni privilegiate delle maschere. In apparenza, e per i profani, la maschera è un fenomeno artistico e tecnico che puo’ significare, attraverso l’ubiquità di queste sculture in Africa nera, unaunità d’espressione culturale. William Fagg scrive a proposito : ”è per l’arte che noi possiamo acquisire la vista più penetrante nella cultura di un popolo e in particolare dei popoli africani“. Le sculture quindi giocano un ruolo di testimoni, rivelatrici della civilizzazione di un popolo. Le maschere intervengono nelle cerimonie d’iniziazione, nei riti legati alla nascita e nelle cerimonie funebri: possono anche dirigere dei riti d’adorazione e in questo contesto strettamente religioso, le maschere servono come protezione contro gli spiriti melefici, ma giocano altresi’ un ruolo di intermediazione tra gli dei e gli uomini. Le maschere regolano poi, in ultimo ricorso, i litigi, i problemi della pace e delle guerre, e a quel punto le loro decisioni sono irrevocabili : sul piano strettamente politico le maschere donano delle direttive ai responsabili politici per la gestione comunitaria.
Infine assicurano la sicurezza della comunità organizzando la sicurezza del villaggio e sono ancora le maschere che si fanno carico dell’informazione in caso di bisogno. Le maschere africane si differenziano secondo la loro utilizzazione e per l’importanza delruolo che devono assumere. Questi ruoli si spiegano con le differenze sostanziali delle loro forme : taglia, figura, disegno. Presso i Sénoufo, per esempio, esistono due grandi classi di maschere in rapporto alle forme, e otto classi in rapporto all’utilizzazione, oltre alle maschere d’iniziazione (poro) che sono di grande taglia e con figure animali (maschere che svolgono il compito di educare e formare gli uomini, maschere con funzioni positive). Al contrario, altre maschere sono destinate alletecniche magiche aggressive o difensive (quest’ultime sono di piccolo taglia e hanno caratteristiche umane). Come regola generale, le grandi maschere comandano le piccole, decidono sulla uscita annuale o periodica di tutte le maschere, arrivando perultime sulla scena nei giorni della cerimonia. Un protocollo insomma, che ricorda le grandi parate politiche dell’Africa antica e quella attuale. La funzione più significativa delle maschere rimane quella del mantenimento dell’ordine. Le maschere si fanno carico di mantenere l’ordine del mondo, della società e delle famiglie e intervengono in effetti per regolare l’ordine cosmico disturbato dai disordini che attentano alle leggi del mondo. In caso di calamità naturali o catastrofi umane, le maschere ordinano dei sacrifici per riparare gli effetti delle trasgressioni che hanno causato questi orrori. Devono poi vegliare sulla rettitudine delle persone e mantenere il rispetto delleinterdizioni che assicurano la struttura delle famiglie e dei villaggi. Infine le maschere della saggezza o “grandi maschere” decidono in ultimo sugli affari che la giustizia profana non puo’ regolare. In conclusione, per mantenere l’ordine nella società e nel mondo, gli uomini hanno sempre avuto bisogno dell’autorità degli dei, degli spiriti e degli ancestri. Le maschere incarnano i depositari naturali e sovrannaturali dell’autorità. Il funzionamento quindi come ricettacolo del sacro e di conseguenza come fondamenta della legge, sorgente dell’ordine e della potenza. Le maschere appaiono dunque, in ultima analisi, come degli strumenti ideologici della società tradizionale africana che assicurano la conservazione dell’ordine naturale tramite la ricerca dell’equilibrio e la lotta contro l’anarchia. Esprimono poi la situazione delle società che non hanno cercato di distruggere la continuità primordiale tra il mondo degli uomini e quello degli dei, tra il naturale e il sovrannaturale. La nuova economia di mercato mondiale, l’urbanizzazione rapida e generalizzata che svuota le campagne, la nuova amministrazione delle collettività rurali, insomma tutti i cambiamenti in corso sono delle minacce che pesano sulla vita delle maschere. Due pericoli appaiono chiari oggi : l’autodistruzione e la distruzione esterna. L’autodistruzione è causata dai commercianti d’arte che sottomettono gli artigiani a delle pressioni irresistibili (denaro) e la distruzione esterna è dovuta alle influenze religiose importate (islam, cristianesimo), con l’assenza criticabile di una politica culturale suscettibile di bloccare la fuga all’estero di importanti strutture materialidella civilizzazione delle maschere. Prossimamente scriverò sulle maschere nelle singole etnie.
Paolo Pautasso
Fonte: My Amazighen
Civiltà antidiluviane, mito o realtà?
Sempre più ritrovamenti fanno pensare che delle civilta’ antidiluviane possano essere esistite davvero…
Per l’archeologia ufficiale l’Homo Sapiens, evolutosi in Africa circa 130 millenni fa, si è diffuso in tutta l’Eurasia a partire da 100 millenni or sono. Quindi, circa 40 mila anni fa è giunto in Australia, mentre solo 14 millenni fa arrivò nel Nuovo Mondo, attraversando la prateria detta Beringia (attuale stretto di Bering). Secondo questa teoria, solo 10 mila anni fa l’uomo divenne stanziale sviluppando l’agricoltura e dando inizio alla fondazione dei primi centri abitati (Gerico, 8000 A.C.).
Vi sono però numerose critiche a questa ipotesi, che sostengono non solo l’inesattezza di questi dati, ma addirittura la possibiltà che l’uomo abbia sviluppato delle civiltà organizzate prima del 9500 A.C.
In effetti potenzialmente l’Homo Sapiens avrebbe potuto, nel corso dei 130 millenni da quando è apparso sulla Terra, sviluppare varie civiltà agresti o marittime, magari evolutesi su piani differenti all’attuale, più spirituali e meno legate al materialismo.
Nel corso degli ultimi anni alcuni archeologi hanno trovato in America dei resti umani, che mettono in discussione le teorie ufficiali e portano a riconsiderare l’intero passato dell’uomo, non solo per quanto riguarda le Americhe, ma per l’intero pianeta.
L’archeologa brasiliana Niede Guidon (supportata da vari altri studiosi di fama internazionale), ha trovato resti di Homines Sapientes arcaici nel Piauì (nord-est del Brasile a circa 700 chilometri dalla costa atlantica), che risalgono a 12.000 anni fa. Le datazioni con il metodo del carbonio 14 hanno provato però che alcuni focolari sono stati utilizzati nella zona oggetto di studio già 60 millenni fa. Questa prova mette in discussione la teoria ufficiale del popolamento delle Americhe secondo la quale i primi abitanti del Nuovo Mondo furono gli appartenenti alla cultura Clovis (deserto del Nuovo Messico), circa 13 millenni fa.
Nel Nuovo Mondo sono stati tanti i ritrovamenti che provano una presenza arcaica dell’uomo, per esempio quello di Monte Verde, in Cile, risalente a 33.000 anni fa.
La teoria riconosciuta del popolamento delle Americhe viene così a cadere, e deve essere completata da altre ipotesi, che considerano la colonizzazione del Nuovo Mondo direttamente dall’Africa, ma anche dalla Melanesia e Polinesia.
Tutto ciò pone sotto un’ottica nuova l’intero periodo durante il quale l’Homo Sapiens colonizzò la Terra, da 100 millenni fa fino ad oggi.
Ora, se si considera che durante questo lungo lasso di tempo, la glaciazione di Wisconsin-Wurm (che durò da 110 a 11,5 millenni fa) era al suo massimo, si può affermare che il livello dei mari era più basso di circa 120 metri rispetto all’attuale. Ciò verosimilmente permise all’uomo di spostarsi più facilmente attraverso gli oceani proprio perchè molte terre ora sommerse affioravano sulla superfice dei mari.
E’ possibile che alcuni gruppi di umani, appartenenti ad etnie a tutt’oggi sconosciute, abbiano fondato delle città costiere, che successivamente furono spazzate via da spaventose inondazioni?
In effetti molte culture hanno lasciato opere letterarie nelle quali si narra di un diluvio, o di un periodo di sconvolgimenti climatici di portata eccezionale: Atrahasis (mito sumero), l’epopea di Gilgamesh (leggende babilonesi), la Bibbia (la Storia degli Ebrei), Shujing (classico di Storia cinese), Matsya Purana e Shatapatha Brahmana (testi sacri indiani risalenti al primo millennio prima di Cristo), Timeo e Crizia di Platone (Grecia), il Popul Vuh della civiltà Maya, per citarne solo alcune. Secondo molti ricercatori di frontiera, ma ultimamente anche vari geologi e climatologi, il diluvio universale fu proprio la fine dell’era glaciale, e accadde circa 11,5 millenni or sono.
Alcuni ricercatori del XX secolo hanno ipotizzato che i sopravvissuti di alcune di queste civiltà antidiluviane si siano rifugiati nei luoghi interni dei continenti, in particolare del Sud America, dove avrebbero rifondato alcune città e gettato le basi per nuove colonizzazioni.
Il primo ricercatore che sostenne questa tesi fu il più grande avventuriero del XX secolo, il colonello inglese Percy Harrison Fawcett. Alla base dei suoi convincimenti vi fu il ritrovamento di un manoscritto (il n.512), conservato alla Biblioteca Nazionale di Rio de Janeiro, nel quale vi era descritto il ritrovamento da parte del bandeirante Francisco Raposo, nel 1743, di una fantomatica città di pietra nascosta nella selva del Mato Grosso, non lontano dal fiume Xingù.
Fawcett partì varie volte dopo il 1920, esplorando la selva compresa tra i fiumi Xingú e Araguaia, all’altezza della Serra do Roncador.
La sua scomparsa proprio nell’area forestale della Serra do Roncador, alla fine di maggio del 1925, non fece altro che ravvivare la leggenda di una misteriosa città antidiluviana, che inghiottì l’esploratore, suo figlio Jack e un amico che partecipava alla spedizione.
Un altro sostenitore della tesi che i superstiti del diluvio si rifugiarono in Sud America fu l’austriaco Arthur Posnansky, che, nel suo libro Tiwanaku, la culla dell’uomo americano, indica per il sito archeologico vicino al lago Titicaca una data di fondazione che risalirebbe al 10.000 A.C.
Anche le piramidi di Pantiacolla (o Paratoari), strane formazioni simmetriche che si ergono, coperte dalla vegetazione, non lontano dal fiume Alto Madre de Dios (Perù), sono indicate da alcuni come centri di energia utilizzate da popoli antidiluviani che si rifugiarono nella foresta amazzonica molti millenni or sono.
L’ipotesi di civiltà antidiluviane sono state supportate ultimamente anche da alcuni ritrovamenti eccezionali, tutti effettuati sotto il livello dei mari fino a ben 900 metri di profondità.
La prima affascinante scoperta avvenne nel settembre del 1968 quando il Dott.Valentine, mentre stava nuotando al largo dell’isola di Bimini, nelle Bahamas, osservò una strada pavimentata con enormi blocchi di pietra rettangolari e poligonali. Secondo alcuni, queste pietre ciclopiche, perfettamente squadrate e lunghe fino a cinque metri, ricordano molto i massi di Sacsayhuamán, l’imponente struttura situata a pochi chilometri dal Cusco, a ben 3555 metri d’altitudine sul livello dei mari.
Alcuni scettici ritengono che i famosi muri di Bimini non sia altro che un fenomeno naturale chiamato “pavimento a tasselli”, che si origina quando la crosta terrestre viene soggetta a tensione e quindi si frattura in blocchi regolari. Per altri invece, come lo stesso Valentine, ma anche il linguista e scrittore Charles Berlitz, e l’archeologo subacqueo Robert Marx, l’origine della strada di Bimini è artificiale e risale all’era glaciale.
Il secondo interessante ritrovamento, ebbe luogo nel 1969. L’equipaggio del sottomarino statunitense Aluminaut, scoprì per caso, nel fondale della Florida, a 900 metri di profondità, un’altra strada lunga più di 20 chilometri costituita di alluminio, silicio e ossido di magnesio. Ancora oggi non si sa se la misteriosa via sottomarina sia opera di una civiltà evoluta o semplicemente uno stranissimo scherzo della natura.
Nel 1987 sono state individuate al largo dell’isola Yonaguni, la più a sud delle isole Ryukyu, in Giappone, delle strane formazioni megalitiche, a partire dalla profondità di 40 metri.
Lo scienziato Masaaki Kimura visitò le strutture subacquee e dopo attenti studi giunse alla conclusione che l’artefice di quell’opera ciclopica non può essere che l’uomo. Il cosiddetto monumento di Yonaguni, detto anche la “tartaruga” è una grande struttura di roccia rettangolare di 150 x 40 metri, alta 27 metri. La cima del monumento si trova a cinque metri sotto il livello dell’acqua. Secondo l’archeologo subacqueo Sean Kingsley, queste mura, i cui lati sono perpendicolari tra loro, sono opera dell’uomo. Per Kimura invece queste strani monumenti possono essere stati modificati dall’uomo in un epoca pre-diluviana, quando i ghiacci coprivano gran parte dell’emisfero boreale e il livello dei mari era più basso dell’attuale.
Nel 2000 l’Istituto nazionale di Tecnologia Marina dell’India annunciò di aver trovato, nel fondale prospiciente la costa dello stato del Gujarat, a 40 metri di profondità, delle strutture megalitiche simili ad una città. Alcuni archeologi indiani confutarono questa notizia, dicendo che era stata diffusa non seguendo stretti canoni archeologici, ma soprattutto per motivi politici, ovvero per dare all’India il primato di avere dato i natali alla prima civiltà del mondo.
Nel 2001 però il Ministro per la Scienza e Tecnologia Murli Manohar Joshi annunciò ufficialmente la scoperta: le strutture sommerse trovate nel golfo di Khambat (Cambay) sono i resti di un’antica città che fu cancellata da inondazioni improvvise. Si affermò anche che le rovine dimostrano una notevole somiglianza con i resti delle civiltà della valle dell’Indo, che si svilupparono ad Harappa e a Mohenjo-Daro, intorno al 2700 A.C.
Verso la fine del 2001 furono trovati dei pezzi di legno carbonizzato nelle vicinanze della città sommersa, che vennero datati, con il metodo del carbonio 14, 9500 anni prima di Cristo. Nel 2003 e 2004 l’Instituto Nazionale di Tecnologia Marina dell’India fece altre esplorazioni subaquee, durante le quali furono recuperati dei pezzi di ceramica, indizi di attività artistica e artigianale di un popolo antico. I reperti furono inviati in alcuni laboratori indiani ed europei e, per mezzo del metodo della termoluminescenza, furono datati da 13 a 31 millenni fa. Il geologo indiano Batrinarayan confermò l’autenticità dei ritrovamenti, sostenendo che le reliquie sono state sottoposte ad analisi con la tecnica della diffrazione dei raggi X. In base a questi ritrovamenti la città sommersa di Khambhat sarebbe stata la più antica del mondo risalendo a 9,5 millenni or sono.
Nel maggio del 2001 la oceanografa canadese Paulina Zelitsky, responsabile della Advanced Digital Communications Company decsrisse i risultati di una esplorazione marina nel Mar dei Caraibi, detta Exploramar. Utilizzando un sofisticato robot, dotato di sonar, magnetometro e videocamera, che fu calato nelle profondità del mare e comandato a distanza con un cavo a fibra ottica, fu possibile mappare una zona di fondale immensa, e i risultati furono stupefacenti.
Delle enormi strutture megalitiche situate a ben 600 metri di profondità sono state trovate al largo del Cabo San Antonio, o penisola Guanahacabibes, nell’estremo ovest dell’isola di Cuba. Le strane formazioni sommerse, cubi, parallelepipedi e piramidi, si estendono per ben venti chilometri quadrati. Per la loro grandezza e complessità, sono state battezzate Mega. Per molti è semplicemente una città impossibile, che non si può spiegare con le tecniche scientifiche attuali. Per altri invece le enormi pietre squadrate sono i resti di antiche mura ciclopiche, in quanto dopo un’attenta analisi si giunge alla conclusione che un tempo dette pareti furono esposte agli agenti atmosferici, poiché vi si trovano i resti di un’antica ossidazione. Inoltre in base alle fotografie e ai video divulgati, si nota che esistono delle strutture ripetute come fossero muri utilizzati per abitazioni. Il geologo Manuel Iturralde, che partecipò alle ricerche, sostiene che è possibile che le rovine sommerse siano attribuibili a una civiltà anti-diluviana, che risalirebbe al decimo millennio prima di Cristo.
In seguito a tutti questi ritrovamenti si può giungere alla conclusione che le possibilità che siano esistite delle etnie antidiluviane sono numerose. In effetti lo studio del lunghissimo periodo di tempo durante il quale l’Homo Sapiens ha dominato il pianeta (130 millenni), è solo agli inizi: sembra abbastanza riduttivo pensare che solo a partire dal 8.000 A.C. sia nata la civiltà.
La nostra visione, che definisce la civiltà come una società di persone che praticano l’agricoltura e vivono in villaggi, dandosi delle regole comuni di comportamento, potrebbe essere limitata. Probabilmente alcuni gruppi di umani, pur non raggiungendo livelli tecnologici più avanzati, avevano sviluppato una rete di collegamenti marittimi e praticavano il commercio, basato sul baratto. Non avevano previsto però che la natura può essere a volte brutale, e molti di loro perirono durante gli sconvolgimenti climatici della fine della glaciazione. E’ verosimile pensare che i sopravvissuti si addentrarono all’interno dei continenti, dove poi si mischiarono con altri loro simili.
La prova definitiva di queste ipotesi tuttavia non è stata ancora dimostrata. Probabilmente è il Sud America che, con le sue foreste ancora oggi impenetrabili, racchiude il mistero delle civiltà antidiluviane che prosperarono durante la lunghissima era glaciale. Siamo solo agli inizi di questa avvincente sfida. Il nostro lontano passato, potrebbe fornirci preziose informazioni non solo sulle nostre origini, ma anche su come affrontare il futuro, migliorando così la nostra vita, soprattutto sul piano della serenità.
Yuri Leveratto
Fonte: Yuri Leveratto
Cavallo Berbero, animale mitico o mito equino (parte 2)
L’ancestro del purosangue inglese
È in Inghilterra, nel XVI° secolo, che il cavallo berbero conobbe il suo apogeo. Dopo l’Antichità, alcuni riproduttori dell’Africa del Nord, in diverse riprese, contribuirono a migliorare l’allevamento britannico. Verso il XII° secolo, le corse dei cavalli divennero uno sport estremamente popolare in Inghilterra che venne regolamentato nel 1603; da allora, i cavalli del Maghreb e del Machreq (attuale penisola arabica) furono ricercati per produrre dei cavalli da corsa. Diverse missioni furono inviate in Arabia, in Turchia e nel Maghreb per cercare di costituire due nuclei: i Royal Mares e i Berberi Mares. A Sidney, un autore inglese, dichiarò che il berbero aveva creato il purosangue inglese così come l’arabo. Il colonnello Eblé, del Cadre Noir, trovò dei berberi e degli arabi nel pedigree di Eclipse, leggendario purosangue inglese. Gli inglesi seguirono l’avviso del duca di Newcastlle che scrisse nel 1667: “inoltre vi consiglio il berbero che, a mio avviso, è il migliore per fare dei cavalli da corsa e da velocità”. Tutte queste descrizioni e citazioni del cavallo berbero, disegnavano in maniera unanime lo stesso modello: piuttosto piccolo, fine, rapido, resistente, membra secche, temperamento piuttosto freddo: un corridore di mezzo fondo. Poi arrivarono i secoli XVIII° e XIX° e con loro la selezione metodica delle specie domestiche in Europa e la stagnazione e/o il declino della rive sud del Mediterraneo e dei suoi cavalli; non si parlerà più del cavallo berbero se non per la sua rusticità. La guerra di Crimea e poi la Prima Guerra Mondiale (battaglia di Uskub) riporteranno brevemente agli onori i berberi nel microcosmo dei cavalieri militari. Nel XX° secolo, la modernità rivolterà le società maghrebine e il ruolo del cavallo ne risentirà: da cavalcature utilitarie per la guerra, la razzia, il viaggio, diventeranno nella migliore delle ipotesi una cavalcatura di prestigio, al peggio un cavallo da carretto.
Paolo Pautasso
Fonte: My Amazighen
65° Festival di Cannes, tappeto rosso per l’Africa
Egitto, Marocco, Senegal: questi paesi saranno i rappresentanti del continente attraverso un film nella selezione ufficiale del 65° Festival di Cannes, che partirà oggi sino al 27 maggio prossimo. Nel 2010, Mahamat – Saleh Haroun, del Chad, ricevette il premio della giuria con “Un uomo che grida”, spezzando un vuoto che perdurava da oltre 15 anni. Il solo regista africano presente in questa edizione per la competizione suprema, la Palma d’Oro, con altri 22 concorrenti, è un discepolo di Youssef Chanine, l’egiziano Yousry Nasrallah: il suo film, “Dopo la battaglia”, è un ritratto di uno degli uomini che attaccarono gli insorti della piazza Al-Tahir, cavalcando un cammello, all’indomani di una rivoluzione che non potè e non volle tornare sui suoi passi. Nabil Ayouch, il più conosciuto tra i registi marocchini e il senegale Moussa Touré, autori di documentari, figureranno nella selezione “Un certain regard” con due film che non passeranno inosservati. Il primo, “Il cavallo di Dio”, ritorna sugli attentati terroristici che funestarono Casablanca nel 2003, attraverso l’itinerario dei loro autori, manipolati dagli islamisti. Il secondo, “La piroga”, racconta l’odissea di una trentina di migrantes che da Dakar cercano di raggiungere le isole Canarie.
Paolo Pautasso
Fonte: My Amazighen
Struttura di Richat, l’occhio d’Africa visibile solo dal satellite
Altrimenti chiamato anche col nome di Struttura di Richat, l’occhio d’Africa è una enorme formazione a modi spirale, che per quan’è grande è visibile solo dai satelliti. In buona sostanza ci si potrebbe anche ritrovare in mezzo senza accorgersene. La struttura ha un diametro di 50 km ed è situata in mezzo al deserto del Sahara nei pressi di Ouadane in Mauritania. L’immagine rilasciata dai satelliti, farebbe pensare ad un immenso occhio blu e verde o ad un gigantesco fossile, proprio per la sua conformazione è stata denominata anche ‘occhio d’Africa’. Fu scoperta nel 1965 durante un volo spaziale e divenne subito un punto di riferimento per tutti gli astronauti. Quando venne scoperta, alcuni ricercatori ipotizzarono che la struttura di Richat fosse stata generata dall’impatto con un meteorite, ma tale teoria non riusciva a spiegare il perché, l’occhio d’Africa, presentasse nella sua conformazione, dei dislivelli che possono raggiungere anche i 40 metri d’altezza, l’assenza di una zona pianeggiante al suo centro e il fatto che sia totalmente priva di rocce tipiche di un impatto. Pertanto tale ipotesi venne scartata dopo poco. La teoria attualmente più accreditata suggerisce che possa trattarsi di una cupola vulcanica crollata su sé stessa nel corso dell’erosione che probabilmente sarà durata milioni di anni. Ma anche questa è soltanto un ipotesi, pertanto la struttura di Richat o Occhio d’Africa, rimane a tutt’oggi un mistero da risolvere per i ricercatori.
Fonte: AGS Cosmo
Nelson Mandela, dimesso dall’ospedale dopo celioscopia
L’ex leader sudafricano Nelson Mandela è stato dimesso dall’ospedale dove era stato ricoverato ieri per forti dolori all’addome. Lo riferiscono fonti del governo. Gli esami medici effettuati su Mandela “hanno rivelato che non c’é niente che non vada”, dice un comunicato ufficiale della presidenza sudafricana. Dopo il ricovero l’ex leader anti-apartheid, 93 anni, aveva subito una celioscopia – un esame endoscopico degli organi addominali che solitamente viene praticato sotto anestesia totale.
L’ex leader sudafricano Nelson Mandela, 93 anni, ricoverato ieri per dolori addominali, ha subito una celioscopia – un esame endoscopico degli organi addominali che solitamente viene praticato sotto anestesia totale – e “sta bene”: è quanto ha assicurato il ministro della difesa sudafricano, Lindiwe Sisulu.
Apprensione in Sudafrica per Nelson Mandela. Il simbolo della lotta contro il regime segregazionista bianco è stato ricoverato per “forti dolori addominali”, facendo aumentare le preoccupazioni per lo stato di salute del novantatreenne ex presidente e premio Nobel per la Pace. Secondo fonti del governo, Mandela si sta sottoponendo ad una serie di controlli specialistici ma un portavoce dell’African national congress (Anc), il partito dell’anziano leader, al potere in Sudafrica, ha precisato che il ricovero era stato programmato da giorni ed ha smentito che Mandela sia stato sottoposto ad intervento chirurgico. “Niente panico, non è stato un ricovero d’urgenza: sta bene”, ha detto Keith Khoza al canale all news sudafricano eNews. La nipote di Mandela, Ndileka, ha detto di non essere preoccupata: “Non credo sia grave. Quando l’ho visto mercoledì, era di buon umore, in buona salute”. “Madiba si lamentava da tempo per dei dolori addominali ed i medici hanno deciso di sottoporlo ad alcuni esami specialistici, ma sarà dimesso già domani o al massimo lunedì”, ha annunciato il presidente Jacob Zuma, che nel comunicato ufficiale ha utilizzato il nomignolo del clan con cui affettuosamente viene chiamato Mandela dalla maggioranza dei sudafricani. “A lui vanno l’affetto e gli auguri di tutti i sudafricani”, ha aggiunto Zuma. L’anziano leader è apparso in pubblico per l’ultima volta nel luglio 2010, quando intervenne al Soccer city stadium di Johannesburg alla finale dei mondiali di calcio.
Lo scorso anno ‘Madiba’ era stato ricoverato per un’infezione acuta alle vie respiratorie. Premio Nobel per la Pace 1993, Mandela viveva fino al mese scorso nel suo villaggio nella provincia orientale di Città del Capo, quando si è trasferito a Johannesburg. Simbolo della lotta contro l’apartheid, da primo presidente nero Mandela è riuscito nell’impresa all’epoca giudicata impossibile di traghettare il paese dalla segregazione razziale verso una democrazia stabile e multirazziale, attraverso il perdono e la riconciliazione. ‘L’icona mondiale della riconciliazioné, secondo una definizione dell’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, venne scarcerato l’11 febbraio del 1990 dopo 27 anni di prigionia, la maggior parte dei quali passati nel famigerato carcere di Robben Island. Ventisette lunghi anni trascorsi in una cella di massima sicurezza in compagnia di pochi libri e di un numero di matricola, il 46664, che oggi dà il nome alla campagna mondiale lanciata dall’ex presidente contro l’aids. Quattro anni dopo la scarcerazione, Mandela viene eletto primo presidente nero nelle prime elezioni multirazziali in Sudafrica. Una volta al potere, ‘Madiba’ crea la Commissione nazionale per la verità e la riconciliazione, a cui mette a capo proprio Tutu, un modello utilizzato in seguito da altri Paesi lacerati da violenze etniche e politiche. Mandela lascia il potere nel 1999, uno dei pochi leader africani a farsi da parte volontariamente. Nel 2009, l’assemblea generale dell’Onu ha istituito il ‘Mandela day’, che si celebra ogni 18 luglio, giorno del compleanno del leader sudafricano.
Fonte: Ansa
Africa, pattumiera elettronica opinione da riciclare
Il materiale elettrico elettronico in arrivo dai Paesi ricchi (in maniera dominante dall’Europa) è in buona parte funzionante e destinato all’utilizzo; l’intero traffico illegale è paragonabile alla produzione di rifiuti tecnologici del Belgio o dell’Olanda.
Uno studio pubblicato sotto l’egida delle Nazioni dalla Segreteria della Convenzione di Basilea ha analizzato la situazione dei rifiuti elettrici ed elettronici (Weee, Waste Electric and Electronic Equipment) in cinque Stati dell’Africa: Benin, Costa d’Avorio, Ghana, Liberia e Nigeria, evidenziando dati che contraddicono alcune opinioni largamente date per scontate.
Il problema dei rifiuti tecnologici sarebbe infatti dovuto a cause interne ai Paesi esaminati più che alle cattive abitudini dei Paesi industrializzati:
it is assumed that in 2010 between 50 – 85% of e-waste was domestically generated out of the consumption of new or used EEE of good quality with a reasonable life-span. For the five selected West African countries, this is between 650,000 and 1,000,000 tonnes of domestic e-waste generated per annum, which at a certain point needs to be managed.
Arrivano rifiuti anche dal mondo ricco, certamente. Tuttavia, dell’equipaggiamento elettrico ed elettronico (Eee) giunto in Ghana nel 2009, il 70 percento era usato ma funzionante e con un’aspettativa di vita ragionevole.
Si pensa comunemente agli Stati Uniti come responsabili principali del problema, mentre invece uno studio condotto in Nigeria indica l’Europa come responsabile del 75 percento degli invii, con L’Asia al 15 percento e il Nordamerica all’8 percento.
E il traffico illegale? Lo si stima nei cinque Paesi analizzati a un totale di 250 mila tonnellate annue. Cifra immensa, che però corrisponde alla quantità di rifiuti tecnologici generati dal Belgio o dall’Olanda, il cinque percento della produzione totale europea di Weee.
Il problema dei rifiuti tecnologici in Africa esiste e va affrontato; ma ha principalmente cause interne prima che occidentali.
Fonte: Apogeonline
Albert Schweitzer, l’Africa di un figlio della Terra
Albert Schweitzer nacque a Kaysersberg, in quella zona dell’Alsazia del Sud appartenente al dipartimento dell’Alto Reno (territorio francese prima del 1871 e dopo il 1919), il 14 gennaio 1875. Suo padre, Ludwig Schweitzer, era un pastore luterano a Gunsbach, un piccolo villaggio alsaziano in cui crebbe il giovane Albert. Era un bambino malaticcio, tardo nel leggere e nello scrivere, faceva fatica a imparare. Da fanciullo riusciva egregiamente solo nella musica, a sette anni compose un inno, a otto iniziò a suonare l’organo, a nove sostituì un organista nelle funzioni in chiesa. Aveva pochi amici, ma dentro di sé coltivava già una spiccata e generosa emotività, estesa anche agli animali, come dimostra la preghiera che, sin da bambino, rivolgeva a Dio invocandone la protezione verso tutte le creature viventi. Terminate le scuole medie, il giovane Albert s’iscrisse al liceo più vicino, a Mulhouse, dove si trasferì, ospitato da due zii anziani e senza figli. Fu proprio la zia che lo obbligò a studiare pianoforte. Al liceo Albert Schweitzer ebbe come insegnante di musica Eugen Munch, famoso organista a Mulhouse della chiesa di Santo Stefano, che gli fece conoscere la musica di Bach. Fu presto chiaro sia a Munch, sia a Charles-Marie Widor, noto organista della chiesa di Saint Sulpice di Parigi, che Schweitzer conobbe nel 1893 durante un soggiorno nella capitale francese, che il giovane Albert aveva un vero e proprio talento per l’organo. Dopo gli studi classici e le lezioni di pianoforte, nell’ottobre del 1893 si trasferì a Strasburgo per studiare teologia e filosofia. In questi anni si sviluppò la sua passione smodata per la musica classica e, in particolare, per Bach. Per quanto concerne lo studio della filosofia, fu assiduo frequentatore dei corsi di Windelband riguardo alla filosofia antica e di Theobald Ziegler (che sarà suo relatore di tesi) riguardo alla filosofia morale. Nel 1899 conseguì la laurea con una tesi sul problema della religione affrontato da Kant e fu nominato Vicario presso la chiesa S. Nicolas di Strasburgo. Nel 1902 ottenne la cattedra di teologia e, l’anno successivo, divenne preside della facoltà e direttore del seminario teologico. Pubblicò varie opere sulla musica (alcune su Bach), sulla teologia, approfondì i suoi studi sulla vita e sul pensiero di Gesù Cristo, ed eseguì vari concerti in Europa. Nel 1904, dopo aver letto un bollettino della società missionaria di Parigi che lamentava la mancanza di personale specializzato per svolgere il lavoro di una missione in Gabon, zona settentrionale dell’allora Congo, Albert sentì che era giunto il momento di dare il proprio contributo e, un anno dopo, all’età di trent’anni, si iscrisse a Medicina, per specializzarsi a trentotto in malattie tropicali. Egli, che sin da piccolo aveva mostrato una spiccata sensibilità nei confronti di ogni forma vivente, sentì come irresistibile il richiamo-vocazione a spendere la sua vita a servizio dell’umanità più debole. Non fu tuttavia facile, per l’organista e insegnante Schweitzer rinunciare a quella che era stata la sua vita fino a quel momento: la musica e gli studi filosofici e teologici. Schweitzer sapeva però di dover realizzare quanto si era prefissato da vari anni. Nel 1911 prese la seconda laurea in medicina e si specializzò appunto in malattie tropicali. Schweitzer aveva le idee chiare anche sulla sua destinazione una volta ottenuta la laurea in medicina: Lambaréné, una città del Gabon occidentale in quella che era allora una provincia dell’Africa Equatoriale Francese. In una lettera scritta al direttore della Società Missionaria di Parigi, Alfred Boegner – di cui l’anno prima aveva letto un articolo sulla drammatica situazione delle popolazioni africane afflitte dalla lebbra e dalla malattia del sonno, bisognose di un’assistenza medica – Schweitzer spiegò la sua scelta: “Qui molti mi possono sostituire anche meglio, laggiù gli uomini mancano. Non posso più aprire i giornali missionari senza essere preso da rimorsi. Questa sera ho pensato ancora a lungo, mi sono esaminato sino al profondo del cuore e affermo che la mia decisione è irrevocabile”. I missionari furono inizialmente scettici sull’interesse dimostrato dal noto organista per l’Africa. La risposta di Schweitzer fu quella di impegnarsi a raccogliere fondi per conto proprio, mobilitando amici e conoscenti e tenendo concerti e conferenze per realizzare il sogno di costruire un ospedale in Africa. Imbarcatosi a Bordeaux sul piroscafo Europa, approda, il 16 aprile 1913, a Port Gentil e, attraversando l’Ogooué, giunge sulla collina di Andende, sede della missione evangelica parigina di Lambaréné, dove, accolto dagli indigeni, appronta alla meglio il suo ambulatorio ricavato da un vecchio pollaio, con una rudimentale ma efficace camera operatoria, cui venne attribuito il suo stesso nome: Ospedale Schweitzer. Ad accompagnarlo in questa sua avventura è una giovane donna, di origine ebrea, che di Schweitzer sarebbe diventata la moglie e la compagna di vita: Hélène Bresslau, conosciuta nel 1901 a una festa di nozze. Albert e Hélène si sposarono nel 1912, dopo che Hélène ebbe ottenuto il diploma di infermiera, conseguito per realizzare il sogno comune con il marito. Cominciano ben presto ad arrivare ogni giorno almeno una quarantina di pazienti. Albert ed Helene si trovano di fronte malattie di ogni genere legate alla malnutrizione, così come alla mancanza di cure e medicinali: elefantiasi, malaria, dissenteria, tubercolosi, tumori, malattia del sonno, malattie mentali, lebbra. Per i lebbrosi, molto più tardi, nel 1953, coi proventi del Nobel per la Pace, costruirà il Village Lumière. Quando nel 1913 il medico alsaziano si imbarcò finalmente per Lambaréné con la moglie, accompagnato da numerose critiche da parte dei suoi familiari, insieme alla settantina di casse e attrezzature varie destinate alla costruzione del nuovo ospedale, egli portò con sé un pianoforte speciale, dono della Società bachiana di Parigi, appositamente costruito per resistere all’umidità e alle termiti africane. Fu questo il suo compagno di ogni giorno, lo strumento sul quale continuò a studiare, alla luce di una lampada a petrolio, nelle pause del lavoro e nel silenzio delle notti africane, quando non era impegnato a scrivere i suoi testi di filosofia e le lettere agli amici. Le giornate di Schweitzer passavano poi a curare la malattie che affliggevano la popolazione di Lambaréné. I suoi inizi nel cuore dell’Africa furono assai difficili: oltre a dover lottare contro la natura che lo circondava, piogge torrenziali, animali feroci o infidi come serpenti e coccodrilli, dovette vincere la diffidenza degli indigeni prima, e poi la loro ignoranza.
Non fu facile avvicinare gli ammalati che si fidavano solo dei loro stregoni (con cui in seguito sviluppò un rapporto di amicizia); le cure del medico bianco non erano da principio ben accolte. La prima operazione di Schweitzer, su un trentenne, colpito da un’ernia che gli stava andando in peritonite, si svolge infatti in un clima surreale. Una volta che il paziente è stato sedato, Schweitzer, nel silenzio della popolazione che seguiva l’operazione, si muove con gesti precisi, conscio che se provocherà la morte di quell’uomo anche la sua sorte sarebbe stata compromessa. L’operazione, la prima di una lunghissima serie, andrà a buon fine. Poi, quando si riversarono a frotte nelle sue baracche per farsi curare, non seguivano le istruzioni del medico bianco, a volte le pomate che dovevano essere usate per la cura della pelle venivano mangiate, altre volte ingoiavano in una volta sola un intero flacone di medicinale. Non era facile trattare con gli indigeni, non era facile farsi capire, ma Schweitzer non si diede mai per vinto; le difficoltà, le avversità, la mancanza di alimenti o di medicinali non erano sufficienti per farlo arretrare. Schweitzer costruì a poco a poco un villaggio indigeno, i malati vi giungevano da ogni parte, spesso con le loro famiglie e tutti venivano ugualmente accolti, le loro usanze rispettate e così le loro credenze. Ogni paziente continua ad essere accompagnato dai parenti e dai figli e spesso anche dalle anatre. Piano piano il “grande medico bianco” conquista la fiducia della gente di Lambaréné, e non solo. Dal profondo della foresta, da villaggi lontani anche centinaia di chilometri, arrivano malati desiderosi di cure. Schweitzer (e la sua comunità di medici volontari che piano piano cresce intorno a lui) diventa un benefattore, una figura di riferimento, e le notizie di quello che sta facendo nel cuore dell’Africa più nera smuovono l’opinione pubblica mondiale. Nel 1914 Hélène e Albert Schweitzer furono messi agli arresti domiciliari a causa della loro nazionalità tedesca. Il 5 agosto di quell’anno, giorno in cui ebbe inizio la Prima Guerra Mondiale, i coniugi Schweitzer vennero dichiarati prigionieri di guerra dai francesi, come cittadini tedeschi che lavoravano in territorio francese. Avevano il permesso di restare a casa, ma non potevano comunicare con la gente né accogliere i malati. Più tardi i francesi li espulsero dall’Africa spedendoli in un campo di lavoro nel sud della Francia. Secondo quanto racconta Edouard Nies-Berger, in “Albert Schweitzer m’a dit“: ”La coppia Schweitzer fu fermata dalle autorità militari francesi per ragioni di sicurezza. Erano entrambi cittadini tedeschi, e la signora S., molto vicina alla Germania, aveva criticato il governo francese in alcune lettere trovate poi dalla censura. A credere a certe voci, Schweitzer era considerato una spia tedesca, ed il Kaiser avrebbe avuto intenzione di nominarlo governatore dell’Africa equatoriale nell’ipotesi di una vittoria tedesca. I servizi segreti avevano trovato nel suo baule un documento che certificava l’offerta, e questa storia lo avrebbe perseguitato per il tutto il resto della sua vita“. In luglio furono rilasciati grazie all’intervento di amici parigini, in particolare di Charles Marie Widor. Durante uno scambio di prigionieri verso la fine della guerra, nel 1918 poterono ritornare in Alsazia. Durante la prigionia avevano contratto entrambi la dissenteria e la tubercolosi e sebbene Albert si sarebbe ripreso grazie alla sua forte fibra non sarebbe stato lo stesso per la moglie, le cui condizioni di salute peggioravano sempre di più. L’idea di tornare in Africa per Albert si dissolveva sempre di più, insieme ai sogni avviati a Lambarenè, aggravata dalla guerra. Un nuovo barlume di speranza si accese con la nascita della figlia Rhena, il 14 gennaio 1919, giorno del compleanno del medico. Le sofferenze provate in prima persona lo aiutarono ulteriormente a comprendere meglio gli altri, mentre il recupero del lavoro come assistente medico presso l’ospedale di Strasburgo, la riconquista delle sue funzioni di pastore presso la chiesa di Saint Nicolas di Strasburgo, contribuirono molto al recupero delle sue energie psico – fisiche. La ripresa dei concerti d’organo inoltre, con una tournée in Spagna, gli dimostrò che era ancora molto aprrezzato come musicista. Dal punto di vista scientifico gli venne conferita la laurea honoris causa dall’Università di Zurigo e nel 1920 Albert fu inviato dall’arcivescovo svedese dell’Università di Uppsala per una serie di conferenze che, insieme ai concerti d’organo che seguirono prima in Svezia, poi in Svizzera, gli permisero di raccogliere i nuovi fondi da inviare a Lambarenè per le spese di mantenimento dell’ospedale negli anni di guerra. Nel 1921 pubblicò un libro di ricordi africani, All’ombra della foresta vergine, il cui contenuto si può ancora considerare indicativo per le azioni che si intraprendono per i Paesi in via di sviluppo. Il 14 febbraio 1924 Albert lasciò Strasburgo per raggiungere di nuovo l’agognata missione di Adendè il 19 aprile. Dell’ospedale non era rimasta che una baracca: tutte le altre costruzioni avevano ceduto col passare degli anni o erano completamente crollate. Organizzandosi per fare il medico di mattina e l’architetto nel pomeriggio, Albert dedicò i mesi successivi alla ricostruzione, tanto che nell’autunno del 1925 l’ospedale poté già accogliere 150 malati e i loro accompagnatori. Alla fine dell’anno l’ospedale operava a pieno ritmo, ma un’epidemia di dissenteria obbligò il suo fondatore a trasferirlo in una zona più ampia, tanto da doverlo costruire per la terza volta. il 21 gennaio del 1927 furono trasferiti gli ammalati nel nuovo complesso.
Albert racconterà così la commozione della prima sera nel nuovo ospedale: ‘’Per la prima volta da quando sono in Africa, degli ammalati sonno alloggiati come si conviene per degli uomini. È per questo che levo il mio sguardo riconoscente a Dio, che mi ha permesso di provare questa gioia“. Complessivamente Albert fece diciannove viaggi a Lambarenè. Ovunque andasse era oberato di impegni: in Africa oltre che medico, era anche il costruttore e l’amministratore dell’ospedale. In Europa insegnava, sosteneva concerti e conferenze, scriveva libri per raccogliere fondi per la sua opera. Spesso veniva insignito di lauree Honoris causa e di molteplici riconoscimenti, tanto che la rivista Time lo considerò ‘’il più grande uomo del mondo’’. Non era stato né il primo né l’unico medico ad inoltrarsi nella foresta vergine, ma il suo pensiero, il suo spirito, la sua personalità erano diventati un riferimento per molti,che in tutto il mondo condividevano i suoi ideali, tanto che vari professionisti seguendo il suo esempio si misero a servizio di opere umanitarie o missionarie in Africa. La sua tempra fisica, il suo carattere fermo unito a grande sensibilità e intelligenza, il rispetto per ogni forma di vita, la perseveranza, la fede, la musica d’organo e ogni opera che compiva vivendola appassionatamente, erano i motivi del suo successo. Ciononostante il grande uomo, conosciuto e apprezzato in tutto il mondo, rimaneva notevolmente umile e timido. Confessò a un suo corrispondente svizzero: ‘’..soffro di essere famoso e cerco di evitare tutto ciò che attira su di me l’attenzione”. Nel 1952 fu insignito del Premio Nobel per la Pace con il cui ricavato fece costruire il villaggio dei lebbrosi inaugurato l’anno successivo con il nome di Village de la Lumière (villaggio della luce). Nei pochi momenti liberi che aveva, lavorando fino a tarda ora, si dedicava alla lettura e allo scrivere, ma anche questi avevano come scopo finale il mantenimento del suo ospedale a Lambaréné. Non volle più ritornare a vivere nella sua terra natale, preferendo morire nella foresta vergine vicino alla gente a cui aveva dedicato tutto se stesso. Ed il 4 settembre 1965 morì, ormai novantenne, poco dopo sua moglie, nel suo amato villaggio africano di Lambaréné. Migliaia di canoe attraversarono il fiume per portare l’ultimo saluto al loro benefattore, che venne seppellito presso l’ansa del fiume. I giornali occidentali ne annunciarono la morte: “Schweitzer , uno dei più grandi figli della Terra, si è spento nella foresta”. Il posto di Schweitzer sarà preso dal successore da lui designato, Walter Munz, un medico svizzero che a soli ventinove anni, nel 1962, aveva abbandonato una vita tranquilla e agiata in Europa per dare una mano a Lambaréné. Dagli indigeni con cui visse fu denominato Oganga Schweitzer, lo “Stregone Bianco Schweitzer”. Il suo primo intento era quello di scrivere un libro che fosse solo una critica alla civiltà moderna e alla sua decadenza spirituale causata dalla perdita di fiducia nei confronti del pensiero. Egli riteneva a tal proposito che una civiltà di tipo occidentale nasceva e prosperava quando a suo fondamento si trovava l’affermazione etica del mondo e della vita, che, per andare di pari passo, dovevano essere fondate sul pensiero. Riteneva che la decadenza del mondo moderno fosse data dal fatto che al progresso materiale non corrispondesse il progresso morale. Quest’ultimo non si era realizzato perché fondato su credenze – quelle religiose del cristianesimo – e non su un pensiero profondo: il progresso morale non poneva le sue basi sulla meditazione rivolta all’essenza delle cose. Passando in rassegna tutte le etiche del passato, egli riscontrò che erano tutte in qualche modo limitate, o perché troppo lontane e astratte dalla realtà o perché relativistiche, mentre per lui un’etica, per essere tale, doveva essere assoluta: ciò che a tutte mancava era un fondamento vero e indiscutibile. Trovò la soluzione del suo problema nel 1915 durante un viaggio intrapreso lungo il fiume dell’ Ogoouè, per andare a curare dei malati: “La sera del terzo giorno, al tramonto, proprio mentre passavamo in mezzo a un branco di ippopotami, mi balzò d’improvviso in mente, senza che me l’aspettassi, l’espressione «rispetto per la vita. Avevo rintracciato l’idea in cui erano contenute insieme l’affermazione della vita e l’etica.” . Elaborò a partire da questo momento un’etica che non si limitava al rapporto dell’uomo con i suoi simili, ma che si rivolgeva a ogni forma di vita; un’etica completa perché totalmente integrata e armonizzata in un rapporto spirituale con l’Universo. Queste idee non verranno pubblicate che nel 1923, inizialmente in due volumi successivamente riuniti sotto il titolo di “Kultur und Ethik“.
“ Nessuno dovrebbe tollerare che vengano inflitte agli animali delle sofferenze e neppure declinare le proprie responsabilità. Nessuno dovrebbe starsene tranquillo pensando che altrimenti si immischierebbe in affari che non lo riguardano. Quando tanti maltrattamenti vengono inflitti agli animali, quando essi agonizzano ignorati per colpa di uomini senza cuore, siamo tutti colpevoli“
“ L’unica cosa importante quando ce ne andremo, saranno le tracce d’amore che avremo lasciato“
Paolo Pautasso
Fonte: My Amazighen
Clima, cambiamenti climatici complici inconsapevoli di nuove epidemie
I cambiamenti climatici che si stanno verificando soprattutto negli ultimi anni, rischiano di divenire complici inconsapevoli di nuove epidemie di malaria nel mondo. Infatti il clima modificato sta favorendo l’arrivo di zanzare-vettrici dell’infezione anche in quelle zone precedentemente ritenute sicure come l’Europa ed altri Paesi occidentali. L’allarme è stato dato a Ginevra nell’ambito di un incontro organizzato dalla Sigma-Tau e la Fondazione Medicines for Malaria Venture, che hanno accuratamente descritto l’attuale drammatica situazione che si sta verificando soprattutto in Africa dove la Malaria uccide un bambino ogni 45 secondi. Il cambiamento del clima potrebbe presto favorire lo sbarco del virus in Europa ed in particolar modo in quelle nazioni che confinano con l’Africa.
Fonte: AGS Cosmo
“Orientalisti“, pittori amanti dei paesi arabi
E’ verso il 1830 che l’Italia si apri’ all’influenza e alle suggestioni diculture lontane e misteriose. Latensione e la propulsione verso l’ignoto, i soggetti storici o fantastici, le atmosfere e le narrazioni ispirate all’Oriente introdussero al singolare genere diesotismo che si impose con forza anche nella pittura, e che fu vissuto sin dall’inizio con una forte prenominanza romantico/erotica. “Orientalisti“ è il termine, di originefrancese, con cui furono denominati i pittori o gli artisti, che a partire dal secolo XVIII° si dedicarono a dipingere atmosfere e ambienti di Paesi arabi, dall’Africa del nord (Maghreb) alla Persia, ritraendo costumi e luoghi ricchi di fascino e, il più delle volte erotici. La tendenza prese piede in Francia con Eugene Delacroix che nel 1882 partecipo’ ad una visita di Stato in Marocco riempiendo quaderni di schizzi con disegni di vita quotidiana locale. Da questi schizzi nacquerono opere come “La Morte di Sardanapalo” del 1827, al Louvre. Altro grande pittore orientalista francese, Jean-Léon Gérome, produsse una serie di quadri che ebbero un successo internazionale ed esposti nelle più importanti gallerie europee. Forse sono state le opere di questi artisti ad offfrire il modello per i numerosi pittori italiani che si cimentarono nel genere, che si sviluppo in Italia nel periodo del Romanticismo Storico con Francesco Hayez (“I profughi di Parga abbandonano la patria” del 1826, “Ruth” del 1835). Il gusto dell’Oriente si diffuse dal nord al Sud della Penisola; nel 1839 il napoletano Raffaele Carelli, della Scuola di Posillipo, inizio’ il suo percorso orientalista partendo verso i lidi di levante, cosi’ come il veneto Ippolito Caffi, negli anni ’40 del ’900, si imbarco’ per la Grecia (allora molto esotica), la Turchia e l’Egitto, dipingendo suggestivi paesaggi come il “Cairo, strada principale”, e i costumi volutamente riproposti in chiave romantica e fiabesca. Molti furono gli artisti veneziani attratti dall‘Oriente, e in particolare verso Costantinopoli, che per secoli era stata una minaccia e una calamita culturale. Alcuni si trasferirono, come Pietro Bello’, architetto e scenografo, e Fausto Zonaro, artista che sicolloca tra gli esponenti più coerenti dell’Orientalismo. Cio’ che suscitava curiosità erano ovviamente le colonizzazioni e lescoperte, gli scavi archeologici di G.B. Belzoni in Egitto e quelli diLudwing Burckhardt, uniti alle suggestioni della letteratura. Mariano Fortuny y Madrazo, pittore catalano residente in Romatra il 1858 e il 1874, lascio’ decine di quadri di soggetto arabo-andaluso, mostrando un Marocco nuovo e anti-retorico. L’orientalista del periodo più importante (non episodico) fu l’emiliano Alberto Pasinio, che lavorava per il celebre mercante Goupil, che viaggio’ per anni nei Paesi islamici ottendendo commisioni dai sovrani. Paesaggi desertici, carovane di Touareg, flora lussureggiante, costumi pittoreschi e altopiani infiniti rivivono negli spettacolari dipinti di Pasini come “Fontana Turca“, “Carovana dello Scià di Persia” o “Superando il valico nelle grandi steppe del Korassan” del 1890-95. Da ricordare poi il fiorentino Stefano Ussi, orientalista en passant, il cui dipinto “Trasporto del Mahamal alla Mecca“, commisionatogli durante una sua permanenza a Sueznel 1869 e acquistato in seguito dal Sultano Abdul Aziz per il suo Palazzo di Costantinopoli, venne esibito con grande successo all’Esposizione Universale di Vienna del 1873. Al pittore il Ministero degli Esteri italiano affido’ composizioni importanti, come “Ricevimento dell’ambasceria italiana in Marocco“, oggi alla Galleria nazionale d’Arte Moderna di Roma.Le tendenze tra Ottocento e Novecento portarono gli artisti ad unainterpretazione ambiguadell’Oriente, visto quasi sempre come luogo di evasione e di sensuali ed erotiche performances. Il rapporto dell’arte con il colonialismo, nell’Africa oramai conquistata, prosegui’ poi con temi folk o applico’ i modelli europei di stile novecentista ai Paesi vinti, assorbendone tipologie e tecniche. Questa linea pittorica non si esauri’ pero’ con la fine del secolo XVIII° e durante il novecento molto artisti proseguirono questo cammino. Artisti come Anselmo Bucci, Felice Casorati, Alberto Savinio, Melchiorre Melis, Giuseppe Biasi, Enrico Prampolini, Achille Funi e altri ancora.
Fonte: My Amazighen