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Marrakech, leggenda dei sette santi
La cifra sette ha una simbologia cosmica molto forte in diverse culture e religioni. Rappresenta la perfezione del Creato, i sette giorni della settimana, i sette anni dell’Età della Ragione. Nei libri sacri delle tre religioni monoteiste, Dio ha creato il mondo in sette giorni. A Marrakech la leggenda dei sette santi sembra riscoprire una moltitudine di credenze profondamente radicate nelle popolazioni berbere (i Berberi erano animisti, in seguito vennero islamizzati). A Rissani, nel Tafilalet, il santuario di Sbaâ Rsan, i sette sposi, è dedicato a sette fratelli che si uccisero perché la famiglia proibì loro di sposare le ragazze che avevano scelto, di cui erano innamorati. Più vicino a Marrakech il pellegrinaggio dei Regraga che perpetua il Daour, la visita alle tombe dei sette santi fondatori della Confraternita dei Chiadma, situata nell’entroterra di Essaouira. Secondo la tradizione musulmana, i sette dormienti di Efeso sono chiamati Ahl al Kahf o Ashâb al Kahf: le persone della caverna o della grotta che si parla nella 18a sura del Corano (sura della caverna) è a loro consacrata. Secondo la leggenda intorno al 127 D.C., piuttosto di sacrificarsi agli idoli pagani, i sette giovani cristiani di Efeso(Turchia) furono chiamati davanti ad un tribunale a causa della loro fede e vennero condannati ma momentaneamente rilasciati.
Per evitare nuovamente l’arresto voluto dall’imperatore Decio, si nascosero in una caverna sul monte Celion, dalla quale uno di essi, Malco, vestito da mendicante, andava e veniva per procurare il cibo. Scoperti, vennero murati vivi nella grotta, che venne sigillata da un masso. I sette giovani si addormentarono nell’attesa della morte. Verso la metà del V° secolo vennero miracolosamente svegliati dai rumori di alcuni pastori che stavano costruendo un recinto per il loro gregge. Malco, tornato ad Efeso, scoprì con stupore che il cristianesimo eran diventata la religione dell’Impero. Vissero un giorno soltanto, per dimostrare il miracolo voluto da Dio per onorare il loro credo, e l’imperatore Teodosio II fece costruire una tomba ricoperta di pietre d’oro. Il culto dei sette dormienti si sviluppò velocemente in Oriente e nell’Occidente cristiano. Se sono il simbolo, nell’Islam, della fiducia in Dio, lo sono anche come testimoni della resurrezione per la quale sono venerati. Ad Efeso, si continua ad onorare i loro santuario e ogni anno migliaia di pellegrini, musulmani e cristiani, si raccolgono a pregare alla casa di Maria e alla caverna. Il culto è celebrato in altri paesi musulmani come a Damasco e in in Algeria (presso Sétif). Il culto si spande dall’Inghilterra all‘Afghanistan, dalla Finlandia allo Yemen. Un cane accompagnava questi giovani cristiani, Qitmir, che si accuccio ai piedi del grande masso per vegliare i suoi compagni, ed è l’unico cane presente nel Corano ad avere l’accesso al Paradiso: “E li avresti creduti svegli, mentre invece dormivano, e li voltavamo sul lato destro e sul sinistro, mentre il loro cane era accucciato con le zampe distese, sulla soglia (…) rimasero dunque nella loro caverna trecento anni, ai quali ne aggiunsero nove“. Nell’Islam il sette è ugualmente un numero che simboleggia la perfezione: sette sono i cieli e i mari, sette le divisioni dell‘Inferno, sette sono le porte di ingresso al Paradiso. Sono sette i versetti dellaFatiha (la sura che apre il Corano), sette sono le lettere non utilizzatedall’alfabeto arabo “che sono cadute sotto la tavola“, sette sono le parole che compongono la professione di fede musulmana, la Sahâda. Durante il pellegrinaggio alla Mecca, i musulmani devono effettuare sette giri intorno alla Ka’ba e sette percorsi tra i monti Cafâe Marnia. Le sette porte del Paradiso si aprono davanti alla madre dei sette figli. Si legge, sul letto di una donna incinta minacciata di aborto, sette versi della sourate. In Iran al momento del parto, si accende una lampada e si orna con sette tipi di frutta e sette spezie aromatiche. I bambini, nell’Islam ricevono il nome il 7° giorno dalla nascita. Alla vigilia de matrimonio, la ragazza si reca al fiume e riempie e vuota per sette volte la sua brocca, poi getta nell’acqua sette manciate di grano, simbolo magico di fecondità. In Marocco, le donne sterili avvolgono la loro cintura sette volte intorno ad un tronco di un particolare albero, dove sono state fissate sette corde. Sette sono gli elementi essenziali nella parure delle donne. Per assicurare ad un defunto il perdono dei suoi peccati si tracciano sette linee sulla sua tomba; una volta interrato ci si allontana di sette passi e si ritorna davanti alla tomba, sempre di sette passi. Si pensa che l’anima dei morti resti nella tomba per sette giorni. Quando si chiede la grazia ad un santo la regola fondamentale è recarsi al santuario (Zaouia) per sette giorni consecutivi o quattro volte ogni sette giorni. Gli esempi sono innumerevoli e il numero sette, generalmente benevolo, a volte diventa malefico. Uno scritto sacro dichiara che “il sette è difficile“. La celebre opera di Nizami, ” Le sette principesse”, unisce il simbolismo dei colori all’astrologia: “sette palazzi ognuno di un colore dei sette pianeti; in ognuno di loro si trova una principessa di uno dei sette pianeti“. I mistici musulmani dichiarano che il Corano comporta sette sensi (a volte si parla di 70 sensi); una tradizione del Profeta (hadith) afferma che il Corano ha un senso extra-esoterico e un senso esoterico; questo senso esoterico è composto, a sua volta, da sette sensi esoterici che a loro volta, posseggono cadauno sette sensi esoterici. La fisiologia mistica si caratterizza nel sufismo iraniano che si fonda sul numero sette. Autori comeSemnâni distingue sette organi (o involucri) sottili, “dove cadauno è la matrice di un profeta nel microcosmo umano“. Il primo dei sette “involucri” è designato come “organo corporale sottile“; risponde al nome di “Adamo del tuo essere”, il sesto è il “Gesù del tuo essere”. Questi involucri sottili sono associati a dei colori: nero per Adamo, blu per Noé, rosso per Abramo, bianco per Mosè, il giallo corrisponde a Davide, il nero luminoso a Gesù, verde per Maometto. I sette differenti stadi sulla via mistica sono simboleggiati da Attar, nel suo celebre poema intitolato “Il linguaggio degli uccelli“, da sette valli: la prima è quella della ricerca (talab), la seconda quella dell’amore (eshq), la terza della conoscenza (ma’rifat), la quarta valle è quella dell’indipendenza (istignâ), la quinta è quella dell’unità (tawhîd), la sesta quella della meraviglia (hayrat) e la settima valle corrisponde al denudamento e della morte mistica (fenâ).
Fonte: My Amazighen
Valbruna, mistero dell’Atlantide dell’Adriatico
Nessuna certezza ne attesta l’esistenza. Non sono elementi probanti alcuni documenti storici, 2 leggende e tanti misteriosi sassi che si intravvedono nelle profondità del litorale che si estende davanti al promontorio di Gabicce Monte, poco distante da Cattolica.
Oggi quella dell’Atlantide dell’Adriatico sarebbe poco più di una leggenda, ma intrisa di tanto mistero. Da secoli pescatori e turisti si soffermano ad osservare, rapiti dalle storie che raccontano di una città sommersa nelle profondità del litorale fra Romagna e Marche.
C’è chi ha assicurato di aver visto distintamente il braccio di una statua, uno stemma, un Capitello o un qualsiasi resto archeologico, confuso fra i sassi adagiati in quelle acque buie e profonde. Turisti e pescatori continuano le ricerche, convinti che forse un dettaglio potrà regalare loro la convinzione che Vallebruna sia davvero esistita e, a causa di eventi drammatici, sia precipitata negli abissi in epoche remote e mai più riemersa e ritrovata.
Da testimonianze tramandate, viaggiatori d’altri tempi hanno narrato di aver visto torri sommerse e le mura della città di ‘Conca’, come era definita negli scritti di varie epoche la città.
Il termine Conca aveva il significato di ‘città profondata’, la stessa che per oltre 3 secoli era stata una presenza concreta nei disegni delle mappe territoriali, che delineavano la zona della Costa romagnola.
In epoche diverse i pescatori hanno assicurato che le loro reti sono rimaste impigliate in elementi sommersi non meglio identificati, strutture delle quali però non hanno trovato tracce concrete i sub, che si sono spinti più volte alla ricerca di qualche elemento che attestasse la veridicità della presenza.
A Cattolica la leggenda si tramanda già a partire dal Cinquecento e riporta sino a noi la notizia che la città sommersa sarebbe un agglomerato urbano di origine romana o bizantina.
Gli storici osservano con il dovuto scetticismo alcuni scritti come quello di Raffaele Adimari, che nel 1610 racconta di una traversata su una barca con alcuni pescatori di ostriche, e al recupero, insieme ai molluschi, del “quadrello” di una torre.
Le narrazioni di Adinari potrebbero essere veritiere “ma quello che probabilmente ha visto sono i resti di strutture portuali quattro-cinquecentesche oggi sommerse che forse si trovavano nella zona detta “Punta della valle”, l’unico tratto del litorale di Cattolica che, anziché avanzare, negli ultimi secoli ha “perso terreno”, lasciando spazio al mare” ha spiegato Maria Lucia De Nicolò, storica dell’Università di Bologna.
Anche gli elementi scientifici tendono ad escludere la presenza di un’antica città sommersa. Il luogo in cui le mappe davano per certa l’esistenza di Vallebruna, nell’epoca citata, in realtà era già coperto dal mare. Nei secoli successivi la costa ha continuato ad avanzare e, come ha riferito Paolo Colantoni, geologo marino e docente di Sedimentologia all’Università di Urbino, la misteriosa città, secondo quanto narrato circa la posizione, non potrebbe trovarsi sommersa dal mare ma piuttosto nell’area territoriale dell’entroterra.
La leggenda potrebbe addirittura aver avuto origine da un’errata interpretazione degli storici di un vecchio documento o da un errore di trascrizione che, con il tempo, ha generato l’equivoco e fissato le basi perchè l’idea di una città sommersa potesse essere una realtà.
Oggi l’ipotesi più accreditata è che se un’antica città fosse davvero esistita i resti andrebbero ricercati sottoterra e non nelle profondità del mare.
Il fascino della leggenda resta però immutato nei secoli e la ricerca non si è mai sopita. Sono in tanti infatti a credere che quel che si osserva nel profondo degli abissi non possono che essere i resti dell’Atlantide dell’Adriatico e gli strani sassi nei quali ci si imbatte, passeggiando sul litorale, ricordano forme d’altri tempi.
Sui sassi di Valbruna e l’Atlantide dell’Adriatico si consigliamo di leggere notizie anche sulle pagine web di Cattolica.info (vedi link).
Fonte: MondoRaro
Sloughi in the Arts
E’ verso il 1830 che l’Italia si aprì all’influenza e alle suggestioni di culture lontane e misteriose. La tensione e la propulsione verso l’ignoto, i soggetti storici o fantastici, le atmosfere e le narrazioni ispirate all’Oriente introdussero al singolare genere di esotismo che si impose con forza anche nella pittura, e che fu vissuto sin dall’inizio con una forte prenominanza romantico/erotica. “Orientalisti“ è il termine, di origine francese, con cui furono denominati i pittori o gli artisti, che a partire dal secolo XVIII° si dedicarono a dipingere atmosfere e ambienti di Paesi arabi, dall’Africa del nord (Maghreb) alla Persia, ritraendo costumi e luoghi ricchi di fascino e, il più delle volte erotici. La tendenza prese piede in Francia con Eugene Delacroix che nel 1882 partecipò ad una visita di Stato in Marocco riempiendo quaderni di schizzi con disegni di vita quotidiana locale. Da questi schizzi nacquerono opere come “La Morte di Sardanapalo” del 1827, al Louvre. Altro grande pittore orientalista francese, Jean-Léon Gérome, produsse una serie di quadri che ebbero un successo internazionale ed esposti nelle più importanti gallerie europee, con sovente dipinti degli Sloughi. Forse sono state le opere di questi artisti ad offfrire il modello per i numerosi pittori italiani che si cimentarono nel genere, che si sviluppo in Italia nel periodo del Romanticismo Storico con Francesco Hayez (“I profughi di Parga abbandonano la patria” del 1826, “Ruth” del 1835). Il gusto dell’Oriente si diffuse dal nord al Sud della Penisola; nel 1839 il napoletano Raffaele Carelli, della Scuola di Posillipo, iniziò il suo percorso orientalista partendo verso i lidi di levante, così come il veneto Ippolito Caffi, negli anni ’40 del ’900, si imbarcò per la Grecia (allora molto esotica), la Turchia e l’Egitto, dipingendo suggestivi paesaggi come il “Cairo, strada principale” e i costumi volutamente riproposti in chiave romantica e fiabesca. Molti furono gli artisti veneziani attratti dall‘Oriente, e in particolare verso Costantinopoli, che per secoli era stata una minaccia e una calamita culturale. Alcuni si trasferirono, come Pietro Bellò, architetto e scenografo, e Fausto Zonaro, artista che si colloca tra gli esponenti più coerenti dell’Orientalismo. Ciò che suscitava curiosità erano ovviamente le colonizzazionie le scoperte, gli scavi archeologici di G.B. Belzoni in Egitto e quelli di Ludwing Burckhardt, uniti alle suggestioni della letteratura. Mariano Fortuny y Madrazo, pittore catalano residente in Roma tra il 1858 e il 1874, lascio’ decine di quadri di soggetto arabo-andaluso, mostrando un Marocco nuovo e anti-retorico. L’orientalista del periodo più importante (non episodico) fu l’emiliano Alberto Pasinio, che lavorava per il celebre mercante Goupil, che viaggio’ per anni nei Paesi islamici ottendendo commisioni dai sovrani. Paesaggi desertici, carovane di Touareg, flora lussureggiante, costumi pittoreschi e altopiani infiniti rivivono negli spettacolari dipinti di Pasini come “Fontana Turca“, “Carovana dello Scià di Persia” o “Superando il valico nelle grandi steppe del Korassan” del 1890-95. Da ricordare poi il fiorentino Stefano Ussi, orientalista en passant, il cui dipinto “Trasporto del Mahamal alla Mecca“, commisionatogli durante una sua permanenza a Suez nel 1869 e acquistato in seguito dal Sultano Abdul Aziz per il suo Palazzo di Costantinopoli, venne esibito con grande successo all’EsposizioneUniversale di Vienna del 1873. Al pittore il Ministero degli Esteri italiano affidò composizioni importanti, come “Ricevimento dell’ambasceria italiana in Marocco“, oggi alla Galleria nazionale d’Arte Moderna di Roma. Le tendenze tra Ottocento e Novecento portarono gli artisti ad una interpretazione ambiguadell’Oriente, visto quasi sempre come luogo di evasione e di sensuali ed eroticheperformances. Il rapporto dell’arte con il colonialismo, nell’Africa oramai conquistata, proseguì poi con temi folk o applicò i modelli europei di stile novecentista ai Paesi vinti, assorbendone tipologie e tecniche. Questa linea pittorica non si esaurì però con la fine del secolo XVIII° e durante il novecento molto artisti proseguirono questo cammino. Artisti come Anselmo Bucci, Felice Casorati, Alberto Savinio, Melchiorre Melis, Giuseppe Biasi, Enrico Prampolini, Achille Funi e altri ancora.
Fonte: Sloughi Marocco
“Sloughi” di Gabriele D’Annunzio
“Questo illustre predatore dalla lingua e dal palato nero, con un ossatura che si intravede attraverso la pelle fine, pare somigli ad un nobile fatto d’orgoglio, di coraggio, di eleganza, abituato come è a dormire su bei tappeti ed a bere il latte puro da un vaso immacolato.”