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“Passione” di Carina Spurio
– Passione –
In un giorno che non ricordo
il tempo venne a svestire
i minuti dell’attesa
e il buio della notte
nascose nel mantello degli attimi
il colore della passione,
di me e di te raccontai
ad una parola scura
incisa sul foglio del fato,
imbevuta di rassegnazione
e di ipotetici futuri
legata al filo degli istanti
come un anello che stringeva
i polsi dello spettro
della mia solitudine
in cui pezzi d’amore
si masturbavano sulle gambe
delle pallide nuvole,
ed io, con i mano i miei giorni
seduta sul ciglio del mondo
inseguivo un sogno
appeso ad un triangolo di stella
che punteggiava un aborto d’amore,
così, ti celai nel mio fiato
per non lasciarti andare
e tutto ciò che non volevo scrissi,
inghiottendoti per pochi istanti
in fondo ai miei ultimi respiri
ancora aggrappata ai tuoi fianchi
ed alla vita che si faceva carne,
mentre impastavo la sabbia dei giorni
in attesa di chiedere a dio, perché!
Tratta da “Sporca Chimera”
Premio Fortunato Pasqualino Butera (CL)
Fonte: Oubliettemagazine
I Medi ed i Persiani (parte III)
Questo popolo di origine montanara ha sempre presentato il capo coperto. I primi copricapi a calotta sono in feltro, semplici o tenuti con un’ampia fascia pieghettata o mediante un alto cordone intrecciato a spirale. In seguito si distinguono nella foggia del costume persiano diversi tipi di cappelli, tra i quali il più rappresentativo è l’antenato del bashljk, un caratteristico berretto rotondo di feltro piuttosto alto con falda avvolta intorno al collo, semplice o pieghettato, accompagnato da un cappuccio a punta cascante sulle spalle posto sulla folta capigliatura ricciuta, tipico della milizia quando non indossava l’elmo, anch’esso proveniente originariamente dalla civiltà dei Medi, dalla forma a casco con calotta alta e munito posteriormente di paracollo e di paramascella su ciascun lato, ma comunque semi-coperto sul viso; inoltre tiare molto particolari, spesso a forma tronco conica, di tessuto o di metallo, leggermente arcuate verso l’alto, o a corona sparate sulla testa, e diademi preziosi. Estremamente riservata era la kindarid, una tiara cilindrica svasata verso l’alto e circondata da una fascia azzurra e bianca, indossata esclusivamente dai re.
Nella calzatura si assiste alla nascita della prima scarpa interamente cucita, spesso in cuoio, che chiudeva il piede all’interno dell’accessorio confezionato, le caratteristiche morbide babbucce, basse con la tomaia che non supera il malleolo o a stivaletto che possono salire dalla caviglia alla coscia, generalmente con triplice allacciatura a stringhe sulla tomaia in prossimità del collo del piede. I Persiani preferiscono il colore azzurro e giallo con forme slanciate, mentre per dare maggiore slancio alla figura in posizione eretta, scoprono il trucco di inserire nel calzare, in corrispondenza del tallone, strati di sughero cuneiformi.
Nelle acconciature si riscontrano molte analogie con il precedente popolo assiro, ma non è possibile definire se si trattasse di pura imitazione o semplice coincidenza. Inizialmente sobri e morigerati, i Persiani perdono con il tempo le buone abitudini mediante i contatti con le popolazioni mesopotamiche più dedite alla corruzione e al vizio, diffondendo infatti la poligamia e i vizi sessuali all’interno degli harem. Questo favorisce l’uso smodato di unguenti e fragranze varie usate durante le abluzioni del corpo per aromatizzare l’odore della pelle. Infatti cosmetici, belletti, profumi, capelli e barba posticci acquistano ampia diffusione. Barbe e capelli sono abilmente intrecciati e arricciati con estrema cura mediante ferri caldi, in linea con la tradizione locale. Come per le precedenti civiltà egemoni, anche i Persiani usano truccare di color nero il contorno degli occhi.
I monili d’oro e preziosi sono indossati con relativa sobrietà da entrambi i sessi, ma assolutamente ben visibili sulle raffigurazioni, specialmente orecchini ad anello e bracciali a maglia o a catena.
Sono scarse le documentazioni pervenute dai ritrovamenti archeologici attestanti lo stile dell’abbigliamento femminile per cui si presume, come in precedenza per altre civiltà, che il vestiario delle donne persiane non fosse dissimile da quello prettamente maschile, che si suppone poteva assumere una caratteristica pressoché simile, tranne che probabilmente per lievi variazioni puramente individuali. Ma non avendo alcuna testimonianza valutabile, in quanto le donne non venivano mai raffigurate nei bassorilievi, non è possibile definire alcuna certezza sull’argomento, ma solo vaghe supposizioni.
In seguito alla sconfitta della Persia ad opera di Alessandro Magno, il costume persiano perse il suo carattere originario per lasciarsi assoggettare alle nuove influenze dei Greci.
a cura di Marius Creati
Il verso come percezione del mito, “Tra Morfeo e vecchi miti” di Carina Spurio
“Tra Morfeo e vecchi miti” è il titolo della quarta raccolta della poetessa Carina Spurio. Carina Spurio, nata e residente a Teramo, è alla sua quinta pubblicazione con l’antologia di poesie “Narciso”. “Tra Morfeo e vecchi miti” è stata pubblicata nel 2008 dalla casa editrice Nicola Calabria Editore.
“Tra Morfeo e vecchi miti” comprende quarantacinque poesie ed un’introduzione a cura di Sandro Galantini. La raccolta ha un carattere politematico, nessun tema e nessun metro è il principale: la variatio è la componente neutra che si contrappone alla staticità poetica che sta prendendo piede nella nostra penisola. Sono quarantacinque le tematiche, sono quarantacinque i metri. Le poesie sono correlate di critica letteraria, premiazioni ed indicazioni di stampa.
La poesia di Carina è dotta, raffinata, non percepisce confusione. Dalla prima lirica della raccolta, il lettore entra in un mondo altro, quello della mente e della percezione del legame che unisce significato e significante. “Euritmia cromatica” è un’associazione di due parole, le quali nella lingua italiana non hanno significato alcuno se utilizzate insieme. “Euritmia” è una disciplina artistica teatrale che cerca di rappresentare la parola con il movimento del corpo; “cromatica” dal greco chroma (colore) si deve intendere come un utilizzo per semi toni, e quindi con effetti che portano al Soave ed al Patetico. “Euritmia cromatica” ci pone con i suoi versi davanti al titolo della raccolta (“Amo sempre il colore/ nell’incanto che esplode:/ un bagliore di luce,/ nell’ immagini nitide/ del buio notturno./ Amo la forza dei limpidi versi,/ imbevuta di mille paure/ che fugaci sprazzi narra/ di radici mai dimenticate;/ ed illusa e sospesa/ tra sonno e ragione,/ tra Morfeo e vecchi miti,/ inseguo la scheggia dei sensi/ all’interno di mie fragilità.”), è come se la lirica volesse avvertire il lettore di ciò che comporterà la lettura della raccolta su un livello emozionale di ricerca del senso profondo dei versi. La lettura sarà come una danza ritmata dai colori. L’antitesi dell’amare il colore e la limpidezza vede l’esplodere della transizione, dal presente al passato, operata dal pensiero che, permanentemente, si soffermerà a discutere con Morfeo ed i vecchi miti.
Lo sguardo è mutato con la seconda lirica, “Colle del vento”, l’ “io” precipita in un “…luogo più sacro…” che possiede “…tetto e pareti di cielo” misto al ricordo tardo medioevale dei fantasmi dell’aristocrazia che, anche dopo la morte, non lasciano il proprio piccolo paese nelle ore di Selene, la dea della Luna, che si alterna con tenui raggi ed oscurità profonda.
Nella ventesima lirica, quasi a metà raccolta, “Selene” “…mentre cresce, decresce/ e scompare…” diviene il contrappeso d’irrealtà conscia che vede il riecheggiare acuto di “…voci passate e immagini di sogno/ in sequenze sospese…” sino a dubitare dell’arrivo del giorno in “Esseri Intermedi”. La dea è partecipe dell’evoluzione del transito nel passato quando l’ “io” non riesce più a trascendere l’altro. In “ad Alessandra” (“Non so adesso cosa inventerai:/ se un viaggio di sublimazione/ nel tempo in cui/ nessuno accende più roghi,/ oppure, diverrai l’apprendista/ di forze imperfette/ che dirigono angosce ed istinti./ Mi chiedo dove arriverai/ persa in magiche cerimonie/ di notti paurose/ in cui sogni e realtà/ diventano un filtro confuso/ e ardenti deliri racchiudono piedi/ in cerchi magici al suolo tracciati./ Con foglie secche di rosa/ artemisia e verbena,/ invochi l’amore/ e nel tempo dall’alba alla sera,/ negli intervalli di ore del giorno,/ trasformi arcane parole/ sussurrate al chiaro di Luna/ che s’arrotonda al tramonto/ bandendo ogni indugio.”) notiamo come il passato sia invocato e costruito, attraverso accessi alchemici edificati dall’atto del sogno, nella realtà. “…l’alchemico lento rito,/ che narra in silenzio/ la storia del mondo/ tra sensi e ragione,/ di un immobile presente…” leggiamo in “L’eterna storia” che propaga il pensiero su più direzioni siano queste ombre o radici per un’immedesimazione tout court del passato, inteso come “già trascorso”, nel destino, nella ciclicità del tempo.
La recensione del libro è stata pubblicata in originale nel sito web Sul Romanzo. Link:
http://sulromanzo.blogspot.com/2010/05/tra-morfeo-e-vecchi-miti-di-carina.html
Written by Alessia Mocci
Fonte: Oubliettemagazine