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Antartide come una nuova Hollywood
Mentre molte persone si stanno godendo il caldo afoso dell’estate, magari in spiaggia a prendere la tintarella, è curioso pensare che c’è chi queste belle giornate le sta passando a -84,6°C.
I membri del Programma Nazionale di Ricerca in Antartide, residenti alla Base Italo-Francese Concordia nel cuore del Polo Sud, ne sanno qualcosa di temperature impossibili, ma il freddo non sarà mai abbastanza per scoraggiare l’entusiasmo. Questi ragazzi, hanno festeggiato il Midwinter (la giornata di metà inverno nota per essere in assoluto la più fredda) organizzando numerosi giochi e gare all’aperto, compensando la temperatura facendo un bagno caldo in una vasca (sempre all’aperto) allestita per l’occasione, alla faccia del freddo! Qui il diario della giornata. Adesso, è iniziata l’alba e i sei lunghi mesi di buio stanno per lasciare il posto ad altrettanti mesi di giorno nel deserto bianco.
Tra una pausa lavoro e l’altra, c’è chi trova il tempo addirittura per girare un film. In occasione del 2010 Antarctic International Winter Film Festival, un’iniziativa che vede coinvolte tutte le basi del Polo Sud nella realizzazione di brevi cortometraggi, visualizzabili al seguente link, Boris ha preso le redini della regia e ha girato una parodia horror insieme ai suoi collaboratori. Il corto è un’elogio a grandi classici del Cinema Hollywoodiano ed è il diario di Daniele, uno spietato omicida che non si sa come mai, se per follia o per noia, inizia a uccidere e a schiavizzare i suoi compagni nella base chiamata Discordia, che è poi il titolo dell’opera. Potete leggere l’articolo relativo nel diario di Concordia a questo indirizzo.
Fonte: Noisymag
Taxi
di Stefano D’Andrea
Cosa sia la Libertà ancora non mi è ancora chiaro. Mi è leggermente più semplice invece individuare le forme in cui essa si manifesti. A tutti è ad ogni buon conto facile comprendere come e quando essa venga negata. Capire la Libertà diventa così possibile. Si tratta del riconoscimento per contrari. Funziona. Come quando vuoi procedere ad una definizione, non ci riesci, e ti appigli alla descrizione particolareggiata di tutto ciò che il fenomeno che vuoi definire non è. O anche a quando si sceglie per esclusione. Ebbene, tante volte noi che viviamo il primo mondo la vera faccia della Libertà non la riconosciamo quando c’è, e non ci manca quando non c’è. E per questa nostra incapacità succede a volte che ci lasciamo convincere delle peggiori sciocchezze, o accettiamo costumi e regole che non hanno alcun buon senso, per noi e la comunità di cui facciamo parte. Prendiamo l’esempio dei mezzi pubblici di trasporto cittadini che vengono ,anche in Italia, denominati “taxi”. Essi dovrebbero consentire spostamenti rapidi e personalizzati ai singoli individui che volessero occasionalmente, o ripetutamente qualora se lo potessero permettere, evitare di usare l’automobile, la motocicletta o altro mezzo privato. Così accade a Londra e nelle maggiori metropoli mondiali. Da noi invece no. Da noi il taxi è un lusso. Ma non un lusso come un gelato dopopranzo, no. Un lusso come un gioiello di Bulgari ™. A Manhattan i tassisti sono organizzati in cooperative, o lavorano come dipendenti di un’azienda, e in ogni caso hanno l’obiettivo di fare quante più corse possibili. Le fermate, inoltre, non esistono, perché i taxi si prendono al volo. Per fornire questo servizio hanno dovuto mantenere delle tariffe ragionevolmente basse (o viceversa, vai a sapere i meccanismi dell’economia), con il risultato che laggiù, come a Londra e altrove, è possibile usare un mezzo pubblico personalizzato in caso di bisogno, senza essere un magnate del petrolio. Potendo quindi permettersi di bere una birra senza dover guidare, avendo modo di muoversi perfino in una direzione diversa da quella dove porta la metropolitana, in pratica avendo la concessione di spostarsi liberamente, a qualsiasi ora, senza dover possedere un’auto. Questa libertà da noi è dono per pochi. Perché quella dei tassisti è una corporazione, che per definizione non ha, tra i propri obbiettivi statutari, contribuire al bene della comunità. Finché le regole lo consentiranno, quindi, la nostra libertà di movimento sarà limitata. Un po’, forse. Ma limitata. Per il bene di nessuno.
Fonte: Vivianamusumeciblog’s
Gianni Forte a dialogo con Marius Creati
Gianni Forte, brillante sceneggiatore della televisione generalista e autore di interessanti spaccati teatrali spesso destabilizzanti, é divenuto un valente portavoce della nuova vetrina drammaturgica italiana attraverso la quale concilia storiografia del quotidiano, interpretazioni del vissuto catartico e fabule mediatiche narranti storie itineranti permeate di ferocia e di crudezza di stile votate a valorizzare i confini di una ricerca performativa quasi spettacolare per l’ebrezza dei contenuti rappresentati, ciascuno di essi orientati nel colpire non solo la curiosità intrinseca dello spettatore, quanto piuttosto a coinvolgerne emotivamente l’eticità vacillante in prossimità di nuovi aspetti raccapriccianti di natura dolente e fragorosa.
Gianni Forte, insieme a Stefano Ricci, collabora attivamente alla realizzazione di un profilato teatrale suggestivo e vitale al tempo stesso attraverso cui immergere lo spettatore in un clima poeticamente violento, permeato di ambizione, frustrazione e illusione, identificato nel fenomeno del marginale consumismo di fondo.
Intervista a cura di Marius Creati
M.C.: Macadamia Nut Brittle… esiste un nesso tra il titolo della rappresentazione e il suo significato letterale?
Gianni Forte: Nocciole, caramello, croccante sono schianti, sentimenti percossi, gusci frantumabili che siamo noi nei confronti dello sconosciuto che ci bussa alle palpebre. Gli anni passano ma ci sentiamo sempre perfettibili, in via di sviluppo, mai compiuti. Perché si continua a restare figli, perché si procrastina l’idea di abbandonare il tetto paterno per tramutarsi in adulti? Perché alla fine delle nostre vicende personali lui e lei non si baciano sotto il vischio come accade nei film di Natale? Svezzati da un palinsesto-governante abbiamo corrotto qualunque possibilità altra di maturità nell’attesa inconscia di un cliff, un picco emotivo prima del familiare “consigli per gli acquisti”.
M.C.: In che rapporto amore, sesso e morte si avvicendano nella vita dei quattro giovani protagonisti? Tra metafora e minaccia, lo stesso miscuglio potrebbe irrompere accidentalmente anche nel quotidiano?
Gianni Forte: Identica miscela già scorre. “Io sogno e nel mio sogno vedo che non parlerò d’amore, non ne parlerò mai più quando siamo alla fine di un amore piangerà soltanto un cuore perché l’altro se ne andrà” cantava Don Backy nel ’68. Ci si apprestava già in quel lontano passato bianco e nero a inseguire il tempo e svestirci di emozioni regalateci dagli altri e poi riprese, come se fossimo tutti in balia di un baratto perenne. Le nostre scarpe rosso-Dorothy piroettano su una frana Oz catastrofica della quale non vediamo il fondo, intenti come siamo a riannodarci le trecce.
M.C.: Macadamia Nut Brittle é il simposio nel quale l’alienazione trova i presupposti del disagio di una società mediatica odierna?
Gianni Forte: La propaganda di regime, l’imperativo del consumo compulsivo, gli status di appartenenza hanno determinato uno scollamento: lo stream of consciousness si è reso impercettibile. Barbie girls in cerca ancora di un finale “e vissero tutti felici e contenti… “, sorridiamo quando sentiamo in circolo lo streptococco fiabesco, iniettatoci sottopelle alla nascita, che continua ad emettere deboli segnali a distanza: un sonar dalle profondità di oggetti accumulati per darci requie. Qual è il sonno, quale il risveglio? Segregati dentro un villaggio planetario viviamo una favola non nostra. Per questa, e altri milioni di ragioni, abbiamo deciso che il mondo dei fratelli Grimm sarà il cuore del nostro prossimo impegno. “Grimmless (senza Grimm)” debutterà, in anteprima nazionale, il 4 settembre 2010 al Festival Internazionale di Castel dei Mondi. Un progetto politico sulla fantasia ribaltando le classificazioni manichee, buoni da una parte e cattivi dall’altra: un new realism dove forse, come Pollicino, appellare le briciole che ci riconducano fuori dall’intrico forestale dell’Assenza. Dalla neve candida, che cade e ricopre tutto raffreddando.
M.C.: Secondo te il confronto con l’avvento della maturità sfocia in atti di percettibile violenza infantile quando si rimane nascosti a lungo nella fanciullezza? Lo scoiamento dell’uomo-coniglio come l’avvento dell’eroina tragica bisogna avvertirli come segnali di una trasmutazione crescente? Esiste uno specchio nella nostra realtà oppure é semplice frutto della fantasia?
Gianni Forte: Non si tratta di infanzie mal germinate ma di messa a punto per radere al suolo ogni certezza precedente. Strapparsi via la pelle equivale alla distruzione dello scudo spaziale ma anche alla volontà di tornare a sentire dolore autentico, a recuperare la percezione esatta dei propri confini. La metamorfosi auspicabile punta verso una riappropriazione che appare più apocalittica e senza redenzione in quanto sprecata, come gesto etico, in un Reale che digerisce senza rumore. Aprire il corpo significa scoprire nuove connessioni, anche in relazione col terrore cieco della morte. Mutarsi in animale, per l’uomo, diventa un movimento; strapparsi la pelle conigliea, un gesto sublime per avvicinarsi ad una portata spirituale che tenta di frantumare l’addio che abbiamo dato al nostro organismo, delegittimandolo dei suoi poteri meno elementari. Per questa ragione la ricerca spasmodica nel sesso dei quattro performers assurge a manifesto di trasmutazione del vivente verso una fruizione oggettuale, un divenire cosa – secondo accezioni deleuziane – che identifica la nuova razza in un prototipo di cyborg, pronto all’aggiornamento e all’auspicabile downloadaggio di nuovi valori.
M.C.: Pensi che il nudo, anche se rappresentato sulla scena agghindato da elementi subordinati come cuffie o maschere, possa rappresentare la quintessenza della vita? E in che modo si collauda con la percezione di un’infanzia tramortita dalla sofferenza?
Gianni Forte: Non ci sono corpi nudi in Macadamia Nut Brittle. Ci sono lembi, riquadri, aree epidermiche che vengono scoperte e pronunciano la loro voce laddove le corde vocali si fanno insufficienti. Abbiamo una macchina a disposizione e sussultare ogni qualvolta viene usata ci indica il livello di accartocciamento cerebrale in cui ci siamo tumulati. Lo scheletro, gli organi che contiene, la carrozzeria diventano ponti, ganci di comunicazione per abbeverarsi ad un’oasi prima del viaggio desolante sotto il sole delle delusioni ad ovest dell’esistenza.
M.C.: C’é un aforisma o un pensiero che desideri condividere con i nostri lettori?
Gianni Forte: “God doesn’t exist: he’s just a Lady Gaga’s avatar”. (ricci/forte).
Fonte: A Tutta Cultura MondoRaro
Stefano Ricci a dialogo con Marius Creati
Stefano Ricci, grande interprete di sceneggiature televisive di stile generalista, nonché formidabile protagonista dell’immaginario teatrale contemporaneo quale autore e regista di numerose rappresentazioni di nicchia altamente innovative, diviene nel corso del tempo un brillante esponente del nuovo teatro italiano mediante il quale esprime il suo armamentario interlocutorio rivolto ad un pubblico sempre più attento non solo alle avvincenti diramazioni della cultura dall’impronta travolgente, all’alba di nuovi scenari della spettacolarizzazione della realtà, quanto piuttosto all’assurgere di particolari allestimenti borderline attraverso cui attingere, anche seguendo il filone della fiaba crudele, una visione disincantata del quotidiano, solitamente nudata di quell’assurdo senso di appartenenza.
Stefano Ricci, insieme a Gianni Forte, collabora attivamente alla fragorosa divulgazione di un insieme di manifestazioni teatrali generanti spettacoli particolarmente suggestivi e ricchi di gran fascino, basti pensare alla seduzione retrattile evinta da peculiari scene cruenti che assumono vere caratteristiche di verve intellettuale.
Intervista a cura di Marius Creati
M.C.: Qual è il significato simbolico di Macadamia Nut Brittle? Esiste una coscienza ideologica che si addentra nell’opera?
Stefano Ricci: Nell’epoca della modernità liquida, come la definisce Bauman, dove lo scenario delle relazioni muta in continuazione per l’estrema fragilità dei legami umani, assumiamo di diritto l’identità di vuoti a perdere, anelanti un legame e prepotentemente terrorizzati dalle responsabilità che esso comporta. Così in Macadamia Nut Brittle, il gelato tanto amato-consumato nei momenti in cui la Vita ci spinge in apnea, raccontiamo il nostro tentativo, quello di scioglierci e ricomporci in una smagliante confezione ad ogni nuovo sguardo agganciato ad un angolo casuale di strada. Il genocidio culturale al quale ci ha piegati la Televisione, profetizzato da Pasolini, ci obbliga a ristrutturare ciclicamente il packaging che ci presenta al mondo, dimenticando tutto quello che giace ormai inutilizzato sotto la buccia. Ovviamente l’indagine che affrontiamo non ha scopo pedagogico ma sicuramente da parte nostra e dell’intero ensamble c’è una volontà di sollecitare le risorse emotive e intellettuali altrui per assemblare un’adunata del Sé pronta all’attacco, in ontologico equilibrio tra un vitalismo iperatomico e un insanabile cupio dissolvi.
M.C.: In che modo si evince il collegamento con l’universo letterario di Dennis Cooper? Esiste un comune denominatore che unisce l’estremismo dell’artista romanziere alla vostra narrazione fragorosa e apparentemente dissacrante?
Stefano Ricci: Radiografare l’inconsistenza di un mondo fatiscente, banalizzato dalla dissoluzione dell’immagine, ci fa stringere patti di alleanza empatici con Cooper. Il desiderio di malta, per tappare quel foro esistenziale che ci impedisce di trovare peso, si scorpora in differenti derivazioni. L’annullamento, o al suo contrario la volontà di conoscersi, sottomettendosi all’altro, regalando il proprio corpo in attesa di un’annunciazione dolorosa – transeunte – che ci illumini da dentro coi bengala di una stella di Betlemme santificante, sono vicini alle dinamiche losangeline dei personaggi cooperiani. Una prensile piena presa sul mondo attraverso i condotti dell’Altro (culo, bocca, fica o qualunque altro orifizio la frustrazione suggerisca), seppur condivisa con un furore da consumatori consumati, abbottona identiche rappresaglie in prossimità di una mancanza di significato, di un regolamento di conti con un Dio assente, o talmente distratto dal suo abbonamento sky, da non far caso alla salamoia tossica in cui ci ha messo a marinare.
M.C.: “La vita che si frantuma dinnanzi alla dipendenza televisiva in procinto di neutralizzare il decorso spontaneo della giovinezza!”… Le scene che si susseguono durante la narrazione denunciano un crudo aspetto della società contemporanea? Quanto di melodrammatico Macadamia Nut Brittle attinge dalla nostra realtà?
Stefano Ricci: Non è esclusivamente la giovinezza a stingersi sotto il diluvio dei pixel tv ma la nostra dinamo esistenziale. Come, peraltro, non c’è nulla di melò in Macadamia Nut Brittle, nessuna trama romanzesca o colpi di scena al limite dell’inverosimile. Soltanto un ostinato bisogno di riconoscersi, istinto semplicemente umano, contraddetto puntualmente da un mondo reale frammentato e disorganico, sospinto all’omologazione. Una corrente egemonica e scadente che noi ci limitiamo a fotografare: non si tratta di aspetti crudi ma semplicemente di smontare i filtri e guardare la luce per quello che è. Il contraccolpo della fine delle ideologie, mascherato con una caterva di ricchi premi e cotillons, rende ogni sforzo ancora più patetico. L’analisi risulta così talmente nitida da non poter generare alcuna ambiguità sul fatto che – in teatro – non si può più fingere di raccontare altro che non sia NOI. Noi senza sconti, senza sovrastrutture di fabula; noi, approdati su un palcoscenico ormai vuoto, chiedendo una ristrutturazione etica. Senza irrigidimenti moralistici, narcisismi o escandescenze religiose. Accompagnati esclusivamente da un battito neoumanista nella valorizzazione della singolarità e della differenza. Un tentativo sanguinoso, supremo, per innestare con la poesia il reale, rendendolo più autentico dello spaccio umano che vogliono farci credere.
M.C.: Amore, poesia contemporanea, sessuomania ed effetti mediatici mimati perfettamente in un contesto permeato di forte cinismo e feroce ironia. E’ una provocazione che stravolge l’emotività oppure una riflessione che attanaglia i possibili rimorsi dell’animo?
Stefano Ricci: Fermiamoci a pensare, con quel sorriso di chi è dentro al gioco e non ne vede il compimento. Il sesso si sfronda di qualunque appetenza morbosa diventando sfrego, abuso del proprio apparato per silenziare un’emotività che stenta a inspirare. Esiste ancora qualcosa che possa provocare, e in tal caso dovremmo spendere energie in un simile sport venatorio, da tiro al borghese? Se provocazione vuol dire costringere a riflettere insieme allora ammettiamo la colpevolezza, Vostro Onore. La condizione letargica in cui versa irrimediabilmente il contenitore Uomo non è più tollerabile. Dobbiamo dunque aspettare il trapasso per incernierarci nuovamente con una dimensione animistica o possiamo ingaggiare un rubabandiera con la nostra sporca mezza dozzina di sensi collassati? Le labbra si schiudono, la fila smaltata di 32ballerine32 bianche identiche si mette decisamente in mostra…
M.C.: Secondo te é ancora possibile immedesimarsi nella tragedia, satura di sofferenza e atrocità, di fronte all’indifferenza del postmodernismo a meno che non si prenda spunto da argomentazioni estranee al mondo del teatro?
Stefano Ricci: Credo che il teatro sia lì per essere oggetto di riflessione con la nostra contemporaneità. Non esistono palizzate che definiscono il mondo del palcoscenico da una parte e quello reale dall’altra, senza interconnessioni. Lo spettacolo digestivo, l’intrattenimento postprandiale, sedativo, esiste e purtroppo dilaga spaventosamente: questa è la vera atrocità take away. La forza politica dell’appello artistico si annida nella sua capacità di tradurre la realtà in inedite immagini + verbo dentro una dimensione globalizzata in fase di ristrutturazione che ha fame di forme simboliche che producano strappi concreti imbastiti di senso. La capacità d’immaginazione di un artista, unito ad un bagnomaria nel reale, produce un caos belluino più di qualunque dispaccio mediatico. La trago-dìa in scena avviluppa con modi tangibili perché l’arte, a differenza dei media, è sovversiva. E anche se il pianeta è saturo di dolore, il valore condiviso con altri soggetti (quando lo sguardo personale si fonde con una lucida tangibilità del reale) permette ad una performance teatrale di seminare più domande di qualunque reportage.
M.C.: C’é un aforisma o un pensiero che desideri condividere con i nostri lettori?
Stefano Ricci: “E’ difficile spiegare questo luogo; posso solo dire che credo esista da qualche parte nella mente di molte persone”. (Roger Ballen)
Fonte: A Tutta Cultura MondoRaro